Aiutiamoli a casa loro

di Shata Diallo.

Zanzibar, isola paradisiaca con un governo indipendente dello stato della Tanzania, e il contrasto tra le spiagge bianche e azzurrine e la pelle nera delle donne che alle cinque di mattina raccolgono le alghe. Passeggiando sulla spiaggia è possibile ammirare i favolosi resort che hanno detratto la prima fila “vista-mare” ai villaggi della popolazione, che, piano piano, indietreggiano.

Sono in macchina verso Stone Town, capitale dell’isola. Sono in macchina con Juma, collega e amico, nato e cresciuto a Jambiani, villaggio a sud dell’isola.

Osservando il contrasto netto tra ricchezza e povertà, che onestamente mi infastidisce parecchio, dico a Juma che alla fine, a Zanzibar, l’afflusso turistico è una vera fortuna perché dà lavoro a metà della popolazione. Allo stesso tempo, coloro che lavorano con il turismo necessitano di avere una grande entrata economica in partenza (ad esempio per gli autisti, spesa fondamentale è quella dell’acquisto di una macchina, acquisto che non tutti possono permettersi).

Mentre ragiono ad alta voce Juma mi interrompe dicendomi che tutti coloro che lavorano nel settore del turismo non sono proprietari dei mezzi che utilizzano, ma sono assunti da privati, principalmente occidentali, i quali ingaggiano e stipendiano terzi per aumentare il bacino di guadagno. Questa (dice Juma) è una vera fortuna, perché consente di lavorare anche a chi non ha la possibilità di comprarsi un mezzo.

Juma, hai davvero detto che è una grande fortuna o me lo sono immaginato? L’economia potrebbe essere tutta interna e invece gli occidentali vengono qui e gestiscono il mercato che rende di più, quello del turismo”. Juma mi guarda un po’ confuso e mi dice “Le persone così hanno un lavoro”. Non replico, ma in silenzio mi interrogo.

Le battaglie contro i migranti (che comunque non condivido e non mi appartengono) mi mostrano da anni che “Quello che è mio è solo mio e non si tocca, non esiste altra interpretazione al senso di proprietà”. Il mio cervello non è in grado di capire il ragionamento di Juma, forse perché vengo da un altro continente, forse perché il mio Paese non ha una storia di colonialismo, sottomissione, schiavitù al pari di quella africana, forse perché Noi Europei siamo ingordi e non ci basta mai quello che abbiamo, forse perché noi, qui, abbiamo bisogno di stabilire i confini e proteggerli con il sangue, per orgoglio, solo per orgoglio, per principio, per superiorità, per dominio, per affermazione, come fanno gli animali.

Dopo quella chiacchierata, mi sono accorta, nella mia ultima permanenza a Zanzibar, che le attività redditizie (ossia quelle che includono import-export) sono TUTTE gestite da occidentali, europei, americani, russi, o come volete chiamarli. La popolazione locale funge da filtro “caratteristico”, venendo pagata molto poco in attività turistiche. Il lavoro interno, invece, è finalizzato al bene della comunità.

Mi sono resa conto di come, a Zanzibar, Ci siamo presi tutto, tutto quello che conta, tutti i soldi che contano. Ho conosciuto una quantità enorme di italiani che si sono trasferiti a Zanzibar e lì, con soldi europei, hanno aperto una attività.

Mi è venuta molta rabbia, che ingiustizia. Ma poi mi sono fermata, e mi sono accorta di una cosa. La mia rabbia non era condivisa dalla popolazione del posto. Questo sentimento non appartiene agli abitanti di Zanzibar.

Come mai, in Italia, continuo a sentire la frase “aiutiamoli a casa loro” mentre a Zanzibar, piena di italiani trasferitisi lì per godersi la vita, non c’è sentimento di odio? Come mai, in Italia, gli stranieri ci rubano i lavori più umili, mentre a Zanzibar, gli italiani concedono alla popolazione del posto di lavorare? Come mai la popolazione dell’isola non si indigna?

La mia rabbia aumentava ma non riusciva ad ancorarsi, trovava conferma nella mia testa, ma non nell’atteggiamento della popolazione. La mia rabbia mi portava a sviluppare l’idea di costruire un fronte unico, un fronte “contro” coloro che avevano usurpato quella bellissima isola. E niente, presa dalla rabbia, per un attimo, mi sono sentita la Salvini degli africani, che, comunque, non fa alcuna differenza. La storia politica e culturale è sicuramente molto diversa, forse, non percepirsi più come una colonia non è così semplice.

Prima di partire, Juma mi ha regalato un grande insegnamento, un vero pugnale nello stomaco. A Juma spiego questo modo di dire europeo “Aiutiamoli a casa loro” e gli chiedo cosa ne pensa degli italiani che a Zanzibar hanno aperto attività vivendo in prosperità a discapito della popolazione del posto.

Juma mi risponde “Questa gente vive qui da molti anni Shata, questa ormai è casa loro”.

 

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