Carne y Arena migrante a Milano

a cura della Redazione.

 

Il  regista messicano Alejandro Gonzales Inarritu, divenuto molto famoso con il film Babel del 2006, da oggi 7 giugno fino al 15 gennaio, propone a Milano una istallazione  video molto speciale finanziata dalla Fondazione Prada: Carne Y Arena, carne e sabbia, l’inferno virtuale che racconta la condizione dei migranti messicani verso l’America.

Accanto a un muro di metallo, un pezzo di quello vero al confine tra Messico e Usa, una porta di ferro, una stanzetta fredda. Sul pavimento mucchi di scarpe squarciate, senza lacci: ballerine rosa strappate, piccole ciabatte di plastica.

“Sono le vere scarpe di migranti, specie donne e bambini, morti nel deserto”, racconta il regista. Bisogna togliersi le scarpe e le calze, metterle in una sorta di cassaforte.

Quando perdi le scarpe nel deserto sei fottuto, non hai più possibilità di sopravvivere”.

Il percorso dentro l’installazione dura sei minuti e mezzo  :  si cammina sulla sabbia, lo zaino sulle spalle, il ‘casco’ virtuale. Come essere nel deserto messicano, il cielo squarciato da un elicottero assordante, il faro puntato addosso. Accanto una donna zoppica e cade, una coppia con un bambino, un uomo con un neonato al collo, due ragazzi. Hanno paura, sono braccati. Arrivano due camioncini, scendono gli agenti, i fucili puntati su di te: “In ginocchio, in ginocchio!”. Un giovane in manette, sulla sabbia, urla la sua storia, come tutti gli altri. Non è come vederli sul grande schermo, sei lì. E quando si entra in contatto con i loro corpi, come un ectoplasma, si vede il cuore, il sangue, la carne.

L’idea di questo viaggio è nata quattro anni fa ma solo dopo Revenant l’ho proposta alla società con cui avevo lavorato. Ho imparato un linguaggio nuovo: quello del cinema è inutile, nella realtà virtuale: non esiste l’inquadratura, il montaggio. Come uno scrittore che non ha aggettivi e verbi devi creare una nuova narrativa. Ma per me era importante anche mettere al centro la condizione umana. L’errore più grande è credere che la realtà virtuale è usata come un’estensione del cinema o uno strumento di marketing. E’ un mezzo con infinite possibilità, un mondo in cui stiamo muovendo i primi passi”. Il tema dell’immigrazione  fin dai tempi di Babel e Biutiful lo sento nel profondo, forse perché anche io sono un migrante, anche se di prima classe. E ho avuto il privilegio di stare al fianco di queste persone, sentire ciò che sentono, mentre la gente che li conosce attraverso notiziari e statistiche, è diventata insensibile sensibile al loro dolore. Volevo mettere le persone dentro i loro panni, nelle loro scarpe, nel loro cuore. Volevo far sentire la loro paura, la sabbia che ti entra negli occhi, nel poco cibo che ti porti dietro. L’idea è far vivere un’esperienza sensoriale, trovare una connessione con la loro realtà.

E poi c’è la mia personale interpretazione: il momento in cui sul tavolo dei tre migranti c’è una piccola nave bianca piena di corpi che si sfarinano e svaniscono in mare, beh, quello è il mio omaggio ai migranti che ho incontrato al Centro per rifugiati di Catania. I siriani, gli iracheni, le donne eritree stuprate, la principessa resa schiava sessuale. Le loro storie erano molto simili a quelle del mio Messico.

Il vostro mare è il nostro deserto: alcuni si dissolvono nella sabbia, altri in acqua. Entrambi sono invisibili ai nostri occhi”.

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