Da Ramallah a Bolzano

di Gentiana Minga.

Tre anni fa, nel 2015 a Bolzano dove vivo da anni, dopo una tipica cena prenatalizia in cui ci siamo riuniti per festeggiare in anticipo Natale e Capodanno, avevo deciso di scrivere un pezzo che narrasse in modo pressoché dettagliato i ricordi della serata. Non era una scelta premeditata né riflettuta. Piuttosto emotiva, come quando a un certo punto ti rendi conto di far parte di un’esperienza unica. Non perché chissà quanto eccezionale, ma semplicemente perché irripetibile. Avevamo deciso il posto, un ristorante pachistano, e prenotato il tavolo. Un tavolo lungo giacché eravamo in dodici.

Non li ricordo tutti, ma so che di fronte a me e mio marito avevamo Adel Jabbar e Samantha Plathner, una coppia mista irachena-altoatesina. Alla loro destra, due signore che vedevo per prima volta, giunte da Trento, una siriana e una palestinese. Più in là Lilia, una amica bulgara cantante lirica e poeta con suo marito italiano e la loro figlia. Al mio fianco Francesca, una professoressa di origine veneziana, bolzanina d’adozione per via del destino. Più giù, vicino alle finestre una coppia mista, iraniana lei, tedesco lui.

Là fuori giaceva la notte sfavillante sulla della strada e si vedevano di sfuggita dei passanti, tutto in contrasto magico con i colori orientali che regnavano dentro. Abbiamo ordinato delle pietanze insolite che abbiamo condiviso rigorosamente tra noi per poterne poi provarne le altre. Crema di yogurt con la menta e fagottini di pasta sfoglia con ripieno di verdure miste. Polpette di ceci, i famosi falafel con crema di melagrana e le banane. Ci siamo intrattenuti un bel po’ assaporando il cibo e chiacchierando di cose frivole  per poter dimenticare la preoccupazione del presente e del futuro.

Francesca ci raccontava di Venezia e dei viaggi avventurosi di sua nonna.

Lilia, della sua ossessione, da piccola, di stare sotto i tavoli a meditare. La sua passione nell’organizzare delle feste rigorosamente a casa sua, cucinare tanto e bene per far felice gli ospiti che a stomaco pieno l’avrebbero sentita cantare delle canzoncine del suo paese. A dire il vero è una delle donne bulgare più interessanti che ho mai conosciuto.

Ma lo stesso mi sarei scordata di tutto se non fosse stato per Safa, la signora palestinese, che a un certo punto ha tirato fuori dalla sua borsa un regalo per Adel e Samantha. Due tazze da tè con una scritta in arabo. Portati da Ramallah, precisò, direttamente dal Museo “Mahmoud Darvish. Le mise sul tavolo con particolare eleganza, e sorrise sistemandosi i capelli. Aveva grandi occhi neri e un viso delizioso, rotondo e circondato da una chioma ondulata. Chiesi di chi erano i versi scritti sulle tazze. Mi ripose che erano per appunto di Mahmoud Darvish. Il poeta palestinese che si spense nel 2008 in Texas, il 9 agosto. Aveva ottenuto  un permesso per vedere la sua famiglia nello stato di Israele solo nel 1996, dopo 26 anni di esilio.

Mi incuriosì il viaggio delle due tazze da Ramallah a Bolzano, e d’un colpo mi ricordai della mia amica Laura Ciaghi che ho conosciuto anni fa. Guida turistica con in tasca una laurea in scienze forestali andava in giro come attivista non violenta in difesa dei diritti umani dal Guatemala in Colombia, dal Kosovo in Iraq. Per un bel po’ di anni con gli altri volontari dell’Operazione Colomba aveva scortato i bambini di At’Tuwani, un villaggio palestinese sulle colline a Sud di Hebron. Abitavano in una casetta minuta costruita da volontari israeliani sul terreno di una famiglia palestinese. Il paese contava qualche centinaia di abitanti, tra cui un gruppo di bambini che ogni giorno per andare a scuola attraversavano la colonia israeliana Ma’on correndo il rischio di venire bastonati, minacciati e malmenati dai coloni. Per evitarlo, facevano un’altra strada alternativa, lunga e stancante. Gli abitanti percorrevano una via difficile e recintata con i raccolti distrutti, gli olivi abbattuti e l’orzo avvelenato. Pregai Safa di tradurmi il versetto inciso su una delle tazze.

C’è qualcosa su questa terra per cui vale la pena viverci”- disse sorridente

Poi aggiunse : “Qui sotto- e mise il dito –  questo qui vuol dire “farfalla”.

Ho raccontato questa cena solo un anno dopo. Ai canti bulgari della Lilia, alle tazzine di Ramallah, ho dovuto aggiungere un altro elemento nuovo, quello di Ahmed Azem, il ragazzo palestinese di 19 anni, ucciso con un colpo al cuore il 17 dicembre del 2016, al villaggio di Beit Rema. È di lui e di tanti come lui che il poeta una volta scrisse:

Usciremo dai nostri campi
Usciremo dai nostri rifugi in esilio
Usciremo dai nostri nascondigli,
non avremo più vergogna, se il nemico ci offende
.

(M. Darvish)

 

Commenta per primo

Lascia un commento

L'indirizzo email non sarà pubblicato.


*