Elina Chauvet un’artista messicana

di Michela Becchis.

Se la parola “intercultura” rischia in questi giorni di diventare un grande contenitore dove troppo spesso va a finire la cattiva coscienza anziché le buone pratiche, è la grande arte che ci riconduce al senso più alto che il confronto, la relazione e il reciproco riverbero tra culture comporta.

In questi giorni è stata a Roma, per la sua prima mostra italiana, Elina Chauvet, l’artista messicana ormai famosa nel mondo per Zapatos rojos, l’istallazione divenuta il simbolo della lotta alla violenza sulle donne e che Elina presentò nel 2009 a Juárez, la città dove per la prima volta è stato usato il termine femminicidio. Le opere di Elina sono il racconto terribile e struggente di un Messico dilaniato da una violenza per noi inimmaginabile; una violenza frutto di taciti accordi tra narcotraffico e potere che cancella ogni giorno le vite di uomini e donne, spesso poco più che bambini, la cui unica colpa è resistere a una quotidianità molto complicata.
Elina racconta e espone le opere che l’hanno accompagnata fin qui anche grazie al lavoro congiunto di altre donne, artiste, galleriste che nella necessità assoluta del reciproco riconoscimento credono con fermezza: il collettivo femminile Ferro+ del teatro di Tor Bella Monaca che dal teatro diffonde cultura sul territorio coinvolgendo associazioni, cittadine e cittadini; la galleria OfficineNove che da Pietralata profonde arte a piene mani partendo dal suo spazio per allargarsi verso i muri, i luoghi autogestiti, quelli reietti e dimenticati di Roma. L’artista ha scelto di raccontare con la sua arte quel Messico così drammatico in biblioteche, scuole e teatri della periferia romana, laddove la vita non è brillante eppure riesce ancora ad apparire dignitosa se commisurata a quell’altra periferia così lontana e forse solo sentita di sfuggita a un telegiornale, perché limitrofa a un muro già esistente e che l’attuale presidente degli Stati Uniti vuole rendere ancora più invalicabile.

Nelle opere dell’artista messicana la narrazione di quella terra diventata in questi anni tra i più plastici laboratori della violenza praticata da singoli, da gruppi, dal capitale, diventa storia di tutti e di tutte, ogni sua opera diventa cioè istantaneità storica, capace in ogni momento di interpretare la tragicità del reale, la cancellazione della giustizia, ovunque tutto questo si manifesti. Partendo dalla sua Mazatlán, Elina Chauvet con alcune opere determina la nostra vicinanza collettiva a ciò che apparentemente dovrebbe essere accanto alla sua vicenda personale, con altre è lei che si accosta con grazie ed empatia a storie che le sono distanti, ma solo geograficamente; cancella la lontananza come segno di ineluttabilità.

Nel caso della celeberrima Zapatos rojos, l’artista prende le mosse dal tormento delle decine di giovani donne che le vivevano accanto e che sono state scempiate fino a non ritrovare altro che i loro capelli, prende le mosse dal dolore per la morte della sorella, uccisa con efferatezza dal suo compagno, e da questo suo personale vissuto si incammina verso tutte le donne del mondo, tutte quelle oltraggiate, uccise, violate.
Elina dice: “Rendere pubblico con la mia arte il mio dolore, invita la società ad esternare il proprio, condividendolo perché lo si possa curare reciprocamente, perché non ci si senta mai dimenticate”.
E infatti, ogni istallazione di Zapatos rojos è un lungo lavoro di molte persone che coinvolgono se stesse, dal reperimento del luogo fino alla collettiva tintura delle scarpe e al loro posizionamento ben visibile in un punto della città.

La notte dell’8 marzo, a Roma, davanti al teatro di Tor Bella Monaca, quelle decine di scarpe che in un grande rito di vicinanza e liberazione durante tutta la mattina erano state tinte da bambini, donne con le buste della spesa, anziane e anziani un po’ intimiditi, mostravano alla città che quando il dolore si condivide diventa più leggero, rimane ma meno straziante e che solo così si può cercare di farlo diventare giustizia. Ora le scarpe romane sono state donate dall’artista al MaaM, il Museo di via Prenestina.

Cammino inverso compie l’opera Confianza (Fiducia). Il progetto è dedicato alla giovane artista italiana Pippa Bacca che partì vestita da sposa, l’abito simbolo di un atto di fiducia, per un viaggio-performance in autostop che avrebbe condotto lei e la sua compagna in Libano, Israele, Palestina, Siria. Pippa si separò dalla compagna nei dintorni di Istanbul e, poco fuori dalla città, fu stuprata, strangolata e gettata in un fosso. Elina ha riflettuto che la giovane artista, così lontana dal suo Messico, era partita fiduciosa di poter compiere l’intero viaggio e sulla parola “FIDUCIA” ha cominciato a riflettere e ha cominciato a chiedere al mondo intero di riflettere con lei, affinché quella parola risuonasse ovunque. Ha inviato dappertutto piccole pezzuole di raso bianco accompagnate da un filo rosso; su quella pagina da sposa ciascuno doveva ricamare cosa significasse per sé “FIDUCIA”. Ne è nata un’opera immensa e corale, luminosa, composta da decine e decine di parole, citazioni, disegni, pensieri. Nel contempo, Elina ha portato con sé in giro per il mondo un meraviglioso abito da sposa su cui ha ricamato e ricama frasi sulla fiducia che le arrivano tramite facebook. Il ricamo, una delle più antiche arti femminili, diventa, secondo l’artista, un modo per suturare al meglio le ferite del mondo e al contempo per disegnare una memoria collettiva e condivisa.

Elina impone con delicatezza al nostro sguardo l’esperienza che lei fa della realtà più aspra, creando un visibile archivio che partendo dal suo corpo e da ciò che il suo corpo fa, obbliga noi osservatori a intervenire, a prendere una posizione senza possibilità di nascondimenti davanti alla brutalità del mondo. L’artista crea con le sue opere l’archivio che il pensiero di genere ci ha insegnato e su cui il pensiero postcoloniale riflette: un archivio in movimento, aperto su un passato prossimo che aspetta di essere condannato, spalancato a un avvenire a cui non ci si deve arrendere, rigorosamente creativo e creativo per tutte e tutti.
Elina tornerà a Roma l’anno prossimo per un periodo lungo, per lavorare con la città, per riconoscersi in questa città svagata, insofferente e crudele ma da sempre segnata dal passaggio del mondo

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