Il bambino e i venti di Armenia : scrivere per ritrovarsi

di Maria Cristina Mauceri – Università di Sydney

Recentemente ho incontrato un amico che non vedevo da decenni. Ho avuto la piacevole sorpresa di scoprire che da non molto tempo ha iniziato a dedicarsi  alla scrittura. Arthur Alexanian discende da una famiglia armena; i suoi genitori, prima ancora di conoscersi, sono stati costretti ad abbandonare il loro paese e trasferirsi altrove per sfuggire al genocidio del loro popolo.  Il Medz Yeghern, il “Grande Male” come viene ricordato dagli armeni, perpetrato dai turchi a partire dal 1915 provocò più di 1.5 milioni di morti e per molti la fuga in alcuni paesi europei principalmente in Francia, Polonia, Spagna, ma esistono comunità armene in tutto il mondo; la più grande si trova negli Stati Uniti. Bandirma la città che sfocia sul mare Marmara dell’Anatolia e da cui provengono i genitori di Alexanian non era stata direttamente coinvolta nel genocidio del 1915, ma la guerra greco-turca dal 1920 al 1923 provocò massacri di armeni e di greci che alla fine decisero di fuggire.

Per riscoprire le sue origini, fare chiarezza su di sé e narrare la storia della sua famiglia, nel 2015 Alexanian ha scritto Il bambino e i venti d’Armenia. Il libro ha vinto il Primo Premio all’11 Concorso Internazionale Autori per L’Europa.  Il titolo rivela che non è solo un’autobiografia ma un’opera in cui si intrecciano storia familiare e Storia di un popolo perseguitato e costretto a rinunciare al paese di origine.  Per Arthur Alexanian l’incontro con l’Italia avvenne presto. Nato in Francia, a Grenoble, nel 1942, a undici anni fu portato a Venezia dalla madre per frequentare il Collegio Armeno. Era stata scelta Venezia perché uno zio materno era monaco nel Monastero Mechitarista sull’isola di San Lazzaro degli Armeni.  Inoltre la madre, dopo essere fuggita da Bandirma, aveva vissuto a Venezia quasi sei anni per poi trasferirsi in Francia, paese che ha una numerosa comunità armena.

Cosa spinge una persona in una fase piuttosto avanzata della vita a riflettere sul suo passato e su quello della sua famiglia? Come giustamente osserva Emanuelita Vecchio nella postfazione al libro, l’autore ha voluto interrogarsi sulla sua identità e sul suo rapporto con il popolo armeno a cui ora riconosce di appartenere. Ne è nato quindi un libro che è una ricerca del tempo passato e un’indagine sincera su se stesso e sulle sue scelte di vita. In particolare questa autobiografia fa comprendere cosa significhi vivere tra culture, portando dentro di sé il dramma di un genocidio che, come giustamente osserva l’autore, si trasferisce geneticamente.  È come se la fuga avesse lasciato un imprinting dentro di lui, infatti, terminati gli studi a Venezia, tornerà solo fuggevolmente a Grenoble, per poi decidere di studiare chimica in Italia dove, dopo altre peregrinazioni tra Stati Uniti, Canada e Algeria, si trasferirà in modo stabile a Firenze.

Come osserva Alexanian scrivere questo libro ha avuto su di lui un effetto catartico dal momento in cui i ricordi hanno iniziato ad affollare i suoi pensieri. E ha riscoperto la sua armenità fino ad allora trascurata.  In una delle presentazioni del libro Alexanian ha fatto un’osservazione molto saggia e, a mio avviso, utile anche per le tante persone che al giorno d’oggi fuggono in Europa, alcune per motivi simili a quelli del popolo armeno. Afferma Alexanian che si possono recuperare le proprie origini con la legittimazione sociale che viene attraverso il lavoro. Così la società in cui uno vive accoglie lo straniero per le sue capacità, per lo sforzo e la volontà di inserirsi, non per le proprie origini.

Tornando al libro, mi ha colpito la tecnica narrativa adottata dall’autore per la sua originalità.  La storia di Arthur e della sua famiglia si snoda in diversi capitoli, ma lui non è l’unico io narrante. Nei capitoli dedicati ai genitori, per esempio, sono la madre e il padre a parlare in prima persona raccontando le loro fughe da Bandirma e l’arrivo in Occidente. Questo conferisce alla narrazione una grande immediatezza. Arthur ridà voce e fa raccontare ai genitori la loro storia, quei genitori che in vita mai gli parlarono apertamente del genocidio del loro popolo, un silenzio questo che ha caratterizzato anche il rapporto tra genitori e figli di ebrei che sopravvissero alla Shoah.

Con tenerezza Alexanian rievoca le figure della nonna, dei genitori, la loro fuga e capacità di adattarsi in una nuova società. Bellissimo il ritratto della madre ancora fanciulla che vaga per le calle veneziane e si sofferma incantata davanti alla vetrina di un negozio dove vengono riparati tappeti.  Venezia è la città in cui la giovane può “trovare molte tracce d’Oriente” quell’Oriente che ha dovuto abbandonare.  La giovane è descritta attraverso le parole della madre con un linguaggio poetico: “Ha la pelle trasparente e candida come la porcellana, il corpo esile e fragile come un’ala di farfalla e quando, raramente, sorride sembra che abbia il sole nel viso”.

L’umanità di Alexanian si nota anche nel modo in cui rievoca e far parlare un ufficiale turco, che non è rappresentato come un carnefice, ma come un uomo che sente il dilemma tra il dover obbedire all’ordine di sterminare gli armeni e la pietà per loro, che lo spinge, a proteggerli avvisando la nonna e la madre di Alexanian di fuggire subito per mettersi in salvo.  Questo rivela come l’autore provi tristezza e malinconia nel parlare del destino del popolo a cui ora riconosce di appartenere, ma non acredine. Come ha detto in un’intervista, al giorno d’oggi, nel presente, nessuno ha delle colpe. Tuttavia ricordiamo che, a differenza dei tedeschi, a tutt’oggi il governo turco non ha ancora ammesso il genocidio armeno.

Un altro aspetto interessante del libro è il modo in cui Alexanian sa rendere – molto bene – la situazione di scissione interiore con cui ha dovuto convivere per molti anni, ricorrendo a un artificio narrativo molto antico: il doppio di cui si serve per rappresentare la dicotomia tra i suoi due io. Talvolta dialoga con questo altergo, che definisce la sua parte maledetta, un diavolo interiore con cui è in conflitto. Come si diceva prima, una parte di lui è sempre pronta alla fuga, alla ricerca del potere e non vuole certezze nella vita (ma chi le ha?).  Potremo definire questo alterego, una specie di ombra junghiana, un  fratello oscuro, cioè una parte negativa dell’autore che spesso è in controllo della sua vita, ma con cui lui non sempre è d’accordo, anche se non si ribella. Solo alla fine riesce a liberarsi di questa figura, e forse questo era uno degli scopi del libro, ricostruire e alla fine accettare la sua identità. Per l’autore l’effetto terapeutico dell’autobiografia è riuscito e per noi lettori questo libro è un affascinante viaggio nella storia di un popolo e nell’animo di una persona profondamente umana e sincera.

 

 

 

 

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