In altre parole

di Maria Cristina Mauceri – Università di Sydney

Quando ci si innamora di una lingua……

Cosa succede se una scrittrice famosa a livello internazionale si innamora di un’altra lingua, decide di studiarla non per usarla da turista ma per farla diventare la sua lingua letteraria? Jhumpa Lahiri, nata in Inghilterra da genitori bengalesi, emigrati negli Stati Uniti quando la figlia aveva due anni, è autrice di quattro libri di successo scritti in inglese e anche tradotti in italiano. La raccolta di racconti con cui ha esordito, Interpreter of maladies [ L’interprete dei malanni] (1999), le è valsa il prestigioso premio Pulitzer per la narrativa e pochi anni fa ha deciso di rinascere letterariamente, iniziando a scrivere in italiano. In altre parole è il suo libro di esordio nella nostra lingua, pubblicato nel 2015 dopo aver dedicato molti anni all’apprendimento dell’italiano, prima negli Stati Uniti e poi nel nostro paese, trasferendosi con la famiglia a Roma nel 2012, e così diventando, come si è definita, “un pellegrino linguistico”.

In altre parole non né un romanzo, né una raccolta di racconti, è un libro che appartiene a un genere che possiamo definire ibrido: un’autobiografia, un taccuino, un diario con riflessioni sull’apprendistato linguistico di una scrittrice che a ventisette anni, quando era ancora studentessa, durante un breve soggiorno italiano si è innamorata della nostra lingua e ha deciso di impararla con metodo e tenacia. In italiano Lahiri scrive in uno stile limpido, coinciso e semplice, (la semplicità e la suprema sofisticazione, diceva Leonardo), e si capisce che ha riflettuto a lungo sulla nostra lingua, non per nulla gli scrittori hanno un’attenzione particolare per le parole e per loro sfumature.

Come italiana che vive all’estero e si muove tra più lingue, senza aver mai abbandonato la mia lingua materna, perché il bilinguismo è un gradito ospite a casa mia, ho trovato interessante quello che Lahiri dichiara a proposito del suo rapporto con il bengalese, la lingua materna che ha sempre parlato in casa, ma che non scrive né legge bene. Non ha mai veramente sentito l’inglese, lingua della sua formazione e in cui ha saputo eccellere come scrittrice, come la “sua” lingua. L’italiano invece rappresenta per lei la fuga da un lungo scontro tra il bengalese e l’inglese perché ha vissuto il suo bilinguismo con angoscia in quanto la faceva sentire diversa dagli altri. Per sanare questo conflitto ha scelto di imparare l’italiano e definisce questo processo una specie di metamorfosi, non per nulla dichiara che il suo libro preferito sono Le metamorfosi di Ovidio. Si identifica nella storia di Dafne che “Esprime il concetto nel senso mitico, primordiale, di essere due cose nello stesso tempo” (121). Come Dafne, che in fuga si tramuta da fanciulla in albero di alloro, così Lahiri riconosce: “[…] penso che la mia scrittura in italiano sia una fuga ” (122)e anche una rinascita e un modo per emanciparsi e per superare quel conflitto sempre sentito con l’inglese, con una lingua che la divideva dai genitori che hanno continuato a parlare bengalese. Credo che da questo punto di vista il libro di Lahiri offra interessanti spunti di riflessione per chi si trova nella condizione di vivere e allevare i figli nel bilinguismo, una situazione sempre più comune in Italia.

Lahiri è una grande scrittrice e lo rivela anche in questo libro in cui si esprime con metafore molto vivide ed efficaci. Il suo rapporto con l’italiano è presentato come “un innamoramento”, iniziato in quel primo viaggio a Firenze a vent’anni, quando ha sentito che doveva avere una relazione con la nostra lingua per la quale ha provato subito un affetto, ancor di più, è stato “un colpo di fulmine”. Studiarlo significa per lei corteggiare la lingua per potersene impossessare anche se è consapevole che non la padroneggerà mai come una nativa. Così, osserva,  scrivere in italiano è come “rinunciare a un palazzo per abitare quasi per strada sotto un riparo così fragile”. E l’apprendimento dell’italiano nel nostro paese è descritto come un’immersione nella lingua. Immergersi appartiene al campo semantico dell’acqua e Lahiri presenta la sua esperienza usando la metafora della traversata a nuoto di un lago, all’inizio si resta ai margini ma man mano che l’acquisizione migliora si trova il coraggio di attraversarlo e giungere all’altra sponda.

Anche l’apprendimento di nuovi vocaboli è descritto attraverso una metafora efficace che ha quasi il sapore di una favola: “Descriverei il processo così: ogni giorno entro in un bosco con un cestino in mano. Trovo le parole tutt’attorno: sugli alberi, nei cespugli, per terra (in realtà: per strada, durante le conversazioni , mentre leggo). Ne raccolgo quante più possibile. Ma non bastano, ho un appetito insaziabile […] Mi sento una mendicante che scopre un mucchio d’oro, un sacco di gemme. ” (45-46) E anche se alla fine della giornata il cestino è pieno, ahimè come ben sa chi ha studiato una lingua straniera, la maggior parte delle parole spariscono perché “il cestino non è altro che la memoria” (46) che spesso ci tradisce. Un modo molto garbato per esprimere l’entusiasmo ma anche la frustrazione che si prova nell’apprendere una nuova lingua.

È molto interessante quanto Lahiri osserva a proposito del suo rapporto con le lingue che sovente antropomorfizza. Mentre non è stata in grado di fare crescere la lingua madre, il bengalese, in quanto andando a scuola ha dovuto necessariamente apprendere l’inglese che però è per lei una matrigna. Si è così trovata nella situazione di non riuscire a identificarsi con nessuna delle due. L’apprendimento dell’italiano, invece, rappresenta una scelta di autonomia e un rifiuto della lingua madre e della lingua matrigna. È molto vivace e tenera l’immagine con cui descrive il rapporto tra l’inglese e l’italiano: il primo è “un adolescente peloso, puzzolente” “vigoroso” e “indipendente” che vorrebbe molestare il fratellino neonato, l’italiano, che deve ancora crescere, essere alimentato e coccolato, verso il quale si sente protettiva.

Non è comune tra gli scrittori translingui in italiano, che ormai da trent’anni sono entrati nel panorama letterario del nostro paese, riflettere sull’apprendimento dell’italiano e sul loro rapporto con la lingua. Qualcuno lo ha fatto, ad esempio già nel 2002 * la scrittrice brasiliana Christiana de Caldas Brito aveva fatto interessanti considerazioni sul rapporto che lega scrittori e persone che emigrano e la lingua appresa nel paese di destinazione, che, osservava, resta sempre una lingua matrigna, con la quale si può anche andare d’accordo. Un’osservazione simile a quella di Lahiri anche se per la scrittrice statuinitense il rapporto con la lingua madre e la sua storia di migrazione sono diversi e più complessi, come ben illustrato nel libro.

In altre parole è un manuale ragionato sull’apprendimento di una lingua, sulle motivazioni che spingono ad apprenderla e sulla perseveranza necessaria. Questo libro ci rivela come una grande scrittrice abbia voluto imparare la nostra lingua con amore, umiltà e fatica e non la contamini affatto con l’inglese, come invece spesso amano fare gli italiani che, anche a sproposito, contagiano la loro lingua con vocaboli stranieri. All’inizio l’italiano era per Lahiri un oscuro oggetto di desiderio, di cui grazie alla sua tenacia è riuscita ad impossessarsi e con questo libro a farcene dono.

  • Christiana de Caldas Brito “Cosa vuol dire essere uno scrittore migrante” in A. Gnisci-N. Moll (a cura di), Diaspore europee & Lettere migranti, Edizioni Interculturali, Roma, 2001, p. 134.

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