Migrazioni e Sviluppo

di Stefania Dall’Oglio

Come noto migrazione e sviluppo sono fenomeni interconnessi ed interagenti, in un rapporto di causa ed effetto a doppio senso. Non esiste infatti un modo univoco di vedere questa relazione, che può considerarsi circolare ed è avulsa da semplificazioni, come dimostrato dall’economia e dalla sociologia delle migrazioni: da una parte il sotto- sviluppo è un fattore (ma non l’unico!) che causa le migrazioni e d’altro canto le migrazioni sono esse stesse fattori di sviluppo, sia per i Paesi di Origine sia per i Paesi di destinazione. A tale proposito è molto interessante fare riferimento ad una recente pubblicazione del Centre for Global Development di Washington del febbraio 2018 , la quale tira le somme di molti studi su migrazioni e sviluppo, giungendo alle conclusioni che nei Paesi poveri lo sviluppo incoraggia le migrazioni piuttosto che scoraggiarle. I paesi con un prodotto interno lordo pro capite tra 5.000 e 10.000 dollari mediamente hanno un tasso di emigrazione tre volte più alto dei paesi con un Pil pro capite al disotto dei 2.000 dollari. Mentre il tasso di emigrazione inizia poi a decrescere superata la soglia dei 10.000 dollari. Spesso, infatti, una maggiore disponibilità economica suscita desiderio di investire di più nell’emigrazione. Nella sua prima fase lo sviluppo produce l’aumento delle competenze e delle aspirazioni delle persone, l’innalzamento dei tassi di natalità, la crescita del livello di educazione, l’aumento delle connessioni internazionali. Inoltre, una maggiore disponibilità economica delle famiglie comporta una maggiore capacità di investire sull’emigrazione e sugli strumenti che incentivano l’emigrazione, come l’accesso a internet, la conoscenza delle lingue, il turismo. Si tratta di un fenomeno conosciuto e studiato come “mobility transition” dalla letteratura scientifica, sin dagli anni ’70. Occorre dunque essere consapevoli che le migrazioni non sono un fenomeno fisso, ma rappresentano per antonomasia il movimento, il rischio, la sfida e la speranza che in ogni epoca hanno contribuito alla costruzione delle società umane. Per questo non si fanno ingabbiare in definizioni e stereotipi, che mai potranno sminuire la complessità e ricchezza della natura umana. Le migrazioni svolgono anche un ruolo di riequilibrio delle disuguaglianze globali e ancor più lo svolgeranno in futuro. Ancora oggi, infatti, sono 700 milioni le persone che vivono sotto la soglia di 1,9 dollari pro capite, ossia la soglia di povertà fissata dalla Banca Mondiale, mentre la povertà si estende in larghe sacche anche nei paesi sviluppati: solo in Italia secondo i dati Istat nel 2017 oltre 5 milioni di persone vivevano in povertà assoluta.

Secondo la stima fatta dal Dossier Statistico Immigrazione IDOS nel 2017 i migranti nel mondo erano 253 milioni, e i dati dell’UNHCR ci parlano di 65,6 milioni di sfollati, rifugiati e richiedenti asilo, l’84% dei quali è nei Paesi in via di sviluppo. I migranti nel mondo provengono principalmente da Asia, Europa e solo il 13,4 % proviene dall’Africa. Inoltre la metà dei migranti provenienti dall’Africa migra all’interno del continente africano stesso. Tra il 2015 e il 2017 sono state stimate in 750 milioni le persone nel mondo che desideravano migrare in modo permanente, stando alla recente indagine “Gallup World Poll” . Tra queste, il 33% della popolazione dell’Africa Sub-sahariana. E in Italia? Si stima che il 32% per cento della popolazione adulta vorrebbe andare via dall’Italia, sebbene l’Italia sia al 10° posto per le destinazioni preferite al mondo e 15 milioni di persone vorrebbero emigrare in Italia nei prossimi anni.

Ma quanti sono gli stranieri in Italia?

Il Dossier Statistico Immigrazione 2018 ci dice che al 1° gennaio 2018 gli stranieri residenti in Italia sono 5.144.000, per un’incidenza dell’8,5% sulla popolazione totale. Tra i soli non comunitari, circa due su tre (2.390.000) hanno un permesso di soggiorno di durata illimitata, che attesta un grado di radicamento e stabilità ormai consolidato. I restanti 1.325.000 hanno un permesso a termine, in maggioranza per famiglia o per lavoro. I dati su accoglienza e sbarchi forniti dal Ministero dell’Interno indicano che alla fine del 2018 i richiedenti asilo e titolari di protezione accolti in Italia erano 135.878, mentre 23.370 sono state le persone sbarcate, con una riduzione dell’ 87,90 % rispetto al 2017, dovuta, come sappiamo, all’accordo con la Libia, alle politiche di criminalizzazione delle ONG ed alla chiusura “de facto” dei porti.

Siamo dunque molto lontani da una presunta “invasione”.

Tuttavia al centro del dibattito politico vi sono quasi sempre i numeri degli sbarchi e la spesa sostenuta per l’accoglienza di chi richiede protezione internazionale, mentre non vengono presi seriamente in considerazione dalla politica i dati che dimostrano in quale misura gli stranieri residenti radicati da anni in Italia costituiscano un fattore di sviluppo per il nostro Paese.

Secondo il rapporto del gruppo di esperti dell’OCSE “Immigrazione e presenza straniera in Italia”, dal confronto tra la spesa pubblica sostenuta per gli immigrati (17,5 miliardi) e quanto versato dagli immigrati stessi al Tesoro italiano in contributi previdenziali ed imposte sul reddito (19,2 miliardi) risulta che nel 2017 vi è stato un saldo positivo per l’Italia di 1,7 miliardi di Euro. Al contempo i nuovi rapporti annuali sulle comunità migranti in Italia, editi dal Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali ed ANPAL, ci dicono che nel 2017 i migranti hanno contribuito all’8,9% del PIL. Lo stesso ex presidente dell’Inps Tito Boeri ha dichiarato in passato che senza immigrati il nostro Paese nei prossimi 22 anni potrebbe avere una perdita netta di 38 miliardi di euro, pari alla differenza tra i 73 miliardi di entrate contributive degli stranieri a fronte di una spesa di 35 miliardi di euro per prestazioni a loro destinate.

Inoltre, un altro fondamentale potenziale agente di sviluppo è costituito dall’imprenditoria immigrata: l’Italia è il terzo Paese europeo per numero di imprenditori e lavoratori autonomi stranieri (Dati Eurostat), ove quasi un decimo delle aziende del Paese sono condotte da lavoratori immigrati. Nel 2017 le società gestite da cittadini stranieri hanno raggiunto la cifra di 587.499 (il 9,6% di tutte le società) e hanno registrato un aumento pari a quasi cinque volte più della media, come apprendiamo ancora dal rapporto del gruppo di esperti OCSE. Questo rappresenta un potenziale di sviluppo che potrebbe, e dovrebbe, venire valorizzato di più da politiche lungimiranti, che incentivino forme di partenariato tra imprese gestite da stranieri in Italia e imprese nei Paesi terzi di provenienza.

Come accennato in premessa, le migrazioni producono sviluppo non solo per i paesi di destinazione ma anche per i Paesi di Origine, principalmente attraverso le rimesse. Il volume complessivo delle rimesse inviate dai migranti presenti in Italia verso i loro paesi di origine ha oltrepassato lo scorso anno i 5 miliardi di euro (€ 5.075.116.000). Non va dimenticato, poi, che questi numeri si riferiscono a quanto spedito dai migranti per il tramite dei canali formali, ossia le banche, la posta e, soprattutto, i “money transfer”, ma non comprendono la componente delle rimesse veicolata dai canali informali (parenti, amici, carte prepagate ecc.), destinata presumibilmente ad aumentare, data la recente tassazione sulle rimesse introdotta con il c.d. ”decreto fiscale” (DL n. 119/2018), con una scelta politica quanto meno miope, poiché a lungo andare favorirà l’evasione fiscale ed impedirà il tracciamento reale dei flussi di denaro. Le rimesse “ufficiali” hanno dunque fornito ai Paesi di origine degli immigrati un aiuto quasi equivalente agli Aiuti Pubblici allo Sviluppo (APS) erogati dall’Italia nel 2017 (pari a 5.858,03 milioni di dollari) e, come già avvenuto in passato, saranno destinate a superare gli APS, considerato che nel 2018 l’Italia ha speso in APS circa 4.900 milioni di dollari, pari allo 0,23% del reddito nazionale lordo e in netto calo rispetto al 2017, con una riduzione drastica del 21,3% , una inversione del trend di aumento che ci fa guadagnare la maglia nera tra tutti i paesi OCSE, secondo gli ultimi dati pubblicati.

Tornando all’Italia, occorrerebbe, quindi, investire sempre e comunque sull’integrazione, anche (ed ormai soprattutto) dei richiedenti asilo, visto che i flussi di ingresso per lavoro sono ormai sostanzialmente chiusi. Come indicano le conclusioni di un recente studio di ISPI e CESVI (“Migranti, a sfida dell’integrazione” 18.9.2018), una maggiore spesa in integrazione è fondamentale per aumentare la probabilità che gli stranieri trovino un lavoro, generando ricadute positive dal punto di vista economico e fiscale nel Paese. A simili conclusioni per l’Unione Europea giunge il parere adottato dal Comitato Economico e Sociale Europeo (CESE) il 12 dicembre 2018 e pubblicato lo scorso 22 marzo, secondo cui l’investimento nell’integrazione dei migranti costituisce la migliore assicurazione contro potenziali costi, tensioni e problemi in futuro, mentre una società europea che sia prospera senza l’apporto dell’immigrazione è impensabile.

Uno scenario senza immigrazione in Europa significherebbe sottoporre i mercati del lavoro a tensioni forse inconciliabili, interi settori fallirebbero, la produzione agricola calerebbe bruscamente, l’edilizia non sarebbe in grado di tenere il passo della domanda; i sistemi pensionistici potrebbero diventare insostenibili, il settore sanitario e dell’assistenza potrebbero crollare, alcune zone si spopolerebbero rapidamente; la stessa coesione sociale verrebbe minata e si diffonderebbero ancora di più il razzismo e la xenofobia.

Nonostante quanto appena descritto rappresenti la base realistica da cui la politica dovrebbe partire, assistiamo sempre di più nel nostro Paese, ed in generale nei Paesi dell’UE, ad un circolo vizioso, ove la politica non è basata su dati oggettivi ma su percezioni e narrazioni distorte della realtà mentre contestualmente, in una relazione di causa ed effetto reciproca, è la politica stessa ad utilizzare a fini demagogici la narrazione distorta della realtà, che viene poi riportata dai media, i quali contribuiscono ad incrementare la percezione falsata del fenomeno migratorio in seno all’opinione pubblica. A tale proposito, in base a quanto evidenziato nell’ultimo rapporto dell’Associazione Carta di Roma – di cui fa parte il Consiglio dell’Ordine dei Giornalisti e la Federazione nazionale della Stampa Italiana – si continuano a riscontrare da parte dei mezzi di informazione violazioni del Protocollo deontologico (chiamato appunto Carta di Roma) concernente richiedenti asilo, rifugiati, vittime della tratta e migranti. Il risultato complessivo è che l’Italia ha il primato del Paese con il più alto tasso del mondo di ignoranza sull’immigrazione, come dimostrano i dati del dossier della “Commissione Jo Cox” (la commissione di inchiesta sull’intolleranza, la xenofobia il razzismo e i fenomeni di odio, istituita presso la Camera dei Deputati nella precedente legislatura).

La conclusione, che può sembrare scontata (ma purtroppo non lo è affatto), è che è necessario, urgente ed imprescindibile guardare all’integrazione come investimento per il nostro futuro, poiché solo una buona integrazione è il fattore che davvero può rendere la migrazione causa di sviluppo. Nonostante questa sia una conclusione logica, fondata su dati reali e dunque ragionevolmente incontestabile, bisogna purtroppo constatare come in Italia le scelte politiche attuali vadano in direzione esattamente contraria, poiché nel decreto – legge “sicurezza” (D.L. n.113/2018 convertito in L. n. 132/2018) si prevede che i richiedenti asilo non siano più accolti nello SPRAR (recentemente rinominato SIPROIMI dal citato “decreto sicurezza”) ma esclusivamente in centri governativi di prima accoglienza che includono sia i grandi centri (CDA, Cpsa, HUBs) sia i CAS (centri di accoglienza straordinaria), ove vengono ospitati già circa il 90% dei richiedenti asilo in Italia, e dove gli standard delle prestazioni volte all’integrazione erano assai più basse che nello SPRAR ancor prima che venisse emanato, lo scorso novembre, il nuovo capitolato d’appalto per gli stessi centri di accoglienza, che ha tagliato il costo pro capite dell’ospitalità (da 35 a 19/26 euro a persona al giorno), eliminando la fornitura di servizi di integrazione, incluso l’insegnamento della lingua italiana. Insomma, gli sforzi fatti per ampliare la rete dello SPRAR negli ultimi anni sembrano ormai venire vanificati, poiché il legislatore ha scelto di cristallizzare un sistema di accoglienza perennemente straordinario che pregiudica l’integrazione, anziché investire maggiormente in quel modello di accoglienza diffusa per richiedenti asilo e titolari di protezione internazionale ed umanitaria che era rappresentato dallo stesso SPRAR.

Purtroppo finché la politica nazionale ed europea non si deciderà a guardare con onestà alla realtà delle migrazioni partendo dai dati della realtà, e dunque ad affrontare il fenomeno complesso delle migrazioni come risorsa da valorizzare e da gestire, questa nostra Italia, così come l’Europa intera, non progredirà nello sviluppo, non solo economico ma anche, e soprattutto, umano. Il perno sul quale si fonda l’inscindibilità del binomio migrazione e sviluppo, infatti, non può che consistere nell’attuazione di politiche intellettualmente oneste e lungimiranti, proiettate verso la costruzione di un futuro di bene condiviso e globale.

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