Mistero Buffo Migrante

di Michela Becchis .

Una critica d’arte che si permette un’incursione nel teatro. Chiedendo perdono in via preventiva se il suo linguaggio non sarà esattamente quello richiesto e praticato dagli specialisti. Ma il teatro riguarda ormai da molto tempo anche lo sguardo di chi quello sguardo da decenni ha fatto plasmare dalle immagini. Lo spettacolo in questione, poi, nasce anche come sfida alla visibilità delle parole per volontà del suo grande autore, Vladimir Majakovskij. L’opera è “Mistero Buffo”, il dramma scritto dal letterato georgiano nel 1918 per celebrare il primo compleanno della Rivoluzione; un testo pensato come opera aperta, l’autore la definì “Una carcassa di opera teatrale”, riscritto in parte nel 1920, continuamente riscrivibile anche per la ininterrotta possibilità di messa in scena del suo sottotitolo: Rappresentazione eroica, epica e satirica della nostra epoca.

Majakovskij pensò l’opera come una allegoria del diluvio universale nella quale quattordici capitalisti e quattordici operai si ritrovano al polo nord e viaggiano su una nuova arca di Noé verso una nuova terra promessa. I personaggi erano maschere e tutta l’opera si svolgeva tra versi saltellanti, calembours spiritosi, duetti e balli che di frequente incrociavano le caratteristiche del teatro di strada. Ma soprattutto l’allestimento dell’opera, portata per la prima volta in scena per la regia di Vsevolod Mejerchol’d, altro grandissimo sperimentatore di quegli anni straordinari, era un omaggio a tutte le avanguardie artistiche che, al pari della Rivoluzione del 1917, avevano rovesciato il mondo o almeno lo sguardo del mondo. Una di quelle correnti, verrebbe da scherzare anche qui con le parole e pensarla come flusso di elettricità, era il Futurismo che nella Russia prerivoluzionaria prese il nome di Cubofuturismo; il creatore delle scene per la prima rappresentazione di Mistero Buffo fu, infatti,  Kazimir Malevic, nato futurista ma che in quegli anni con il Suprematismo portò l’opera d’arte verso la più assoluta astrazione della forza della rappresentazione. Ce n’è molto, quindi, di materiale per pensare che questo dramma non sia campo d’azione e di riflessione solo degli esperti di teatro.

A cento anni da quella rivoluzione che per Majakovskij ebbe da un lato la potenza di un mistero di umana metafisica, di sacralità fatta carne e progetto e dall’altro l’impronta buffa della quotidianità rutilante e rovente che il mistero sprigionava, il 26 e 27 aprile scorso a ROMA, Mistero buffo si è lasciato squadernare per accogliere un progetto di grande bellezza: si è fatto portare in scena dal Teatro Comunitario con il gruppo di migranti del laboratorio organizzato dall’assoc.  Asinitas, le musiche originali di Madya Diebate e Matteo Portelli e la regia di Alessio Bergamo.

Il Teatro Comunitario è un’esperienza che attraverso il lavoro di apparecchiamento di un’opera crea la possibilità della calma curiosità e del sereno riconoscimento dell’”altro” che non è solo il migrante, ma anche il vecchio, il disoccupato, i giovani precari, la donna che fugge dalla violenza, l’artista di professione. Alessio Bergamo, gran cerimoniere di questa giornaliera, laica liturgia, parla di un “miscuglio che da dentro non è percepibile se non nel suo aspetto giocoso anche quando la differenza linguistica sembra diventare una minaccia alla comunicazione”. In questo allestimento, sebbene gran parte dei protagonisti non sia professionista, nulla è stato lasciato al caso, mai si è sentito il sapore dolciastro dell’”opera buona”, tutto è stato condotto all’insegna di una autentica, critica rilettura dell’opera. La fusione tra sublime e triviale, la sua straordinaria visionarietà e visività, la esplosiva fisicità che il teatro di Majakovskij richiede, nulla è andato perduto. Dietro il vorticoso movimento scenico, il flusso continuo di personaggi, il meraviglioso incombere di un disastro che più che una sciagura sembra una promessa, la Babele di lingue di cui spesso non è fondamentale intendere alla perfezione il significato, l’entrata pacata sulla scena dei musicisti, dietro a tutto c’è una regia perfetta di chi, come Bergamo, coniuga la capacità di regia e la profondissima conoscenza della cultura e della letteratura teatrale russa. La scenografia apparentemente scarna ed essenziale, fatta di veli, pallet e braccia, obbliga lo spettatore a ricordare, fosse anche per qualche semplice reminiscenza scolastica, la portata rivoluzionaria, di mondo nuovo, che le avanguardie russe significarono. Sulla scena del Teatro India ad accogliere circa cinquanta interpreti ci sono i movimenti taglienti e le linee di fuga del Costruttivismo; i costumi semplici, preparati dagli allievi dell’Accademia di Belle Arti di Frosinone, rievocano però i tessuti  delle artiste delle avanguardie, quelle che, per riprendere le parole di Rozanova, attraverso gonne, borsette e cappellini creavano “l’ambiente vivente per l’arte”; i bianchi e i colori puri, mescolati ai jeans, sono quelli del Primitivismo ma, sopra a tutto lo spettacolo aleggia lo sberleffo fiducioso di quella grande e perfetta risata che fu la mostra La coda dell’asino tenutasi a Mosca nel 1912. Lo straniamento che tutto questo provoca nei momenti in cui entra in scena la musica dolce e delicata della kora di Madya Diebate affiancata dall’armonico indie di Portelli è una salutare sinestesia.

Majakovskij vedeva il sogno di un’umanità liberata, ma anche creatrice essa stessa di mondi nuovi, attiva nel mettere in gioco il suo stesso corpo e il potenziale eroico che esso racchiude, fuori dalle pacate attese borghesi. Scriveva di una società che spingeva le sue utopie ed è commovente come quel liberatorio cantare con il pubblico l’Internazionale, corretto dal nostro tempo, constatare che quel calor bianco sprigionato dal teatro dello scrittore teppista sicuramente non era mai stato così colorato.

Altre date a metà giugno a ROMA  Tor Bellamonaca e forse anche in luoghi all’aperto come avrebbe voluto l’autore.

 

 

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