I “Moltivolti” di Palermo

Tullio Filippone – Palermo

Palermo è l’anello mancante tra Oriente e Occidente”. L’anno scorso, il fotografo iraniano Manoocher Degati, dopo un reportage per il National Geographic alla riscoperta del Meridione arabo, mi confidava che aveva trovato una risposta al sogno del multiculturalismo. Con il suo obiettivo si era mosso tra i bastioni di Lucera in Puglia, il castello e l’hammam di Cefalà Diana e il percorso Unesco arabo normanno, ma l’anello mancante l’aveva trovato a Ballarò, nel cuore di Palermo. Qui, attorno alle bancarelle di un mercato storico, tra gli antichi palazzi, le abitazioni popolari e catapecchie, il popolo palermitano, la borghesia bohemien, i nobili, le comunità africane, pakistane e bengalesi e il mondo dell’associazionismo convivono in un ecosistema sociale senza pari. Ma durante la sua permanenza in città c’era un posto dove il fotoreporter vincitore del World Press Photo del 1983 si fermava sempre, I Moltivolti.

Se in questi anni di scontro di civiltà e migrazioni molti avventori sono venuti da tutto il mondo per esplorare e documentare il fenomeno Ballarò, non c’è giornalista, turista, ricercatore che non sia partito da questo avamposto sospeso tra l’oratorio di Santa Chiara, uno dei punti di riferimento della comunità locale e le porte del mercato. Formalmente si tratta di un co-working con un caffè ristorante che offre una cucina multietnica. Ma tra quei lunghi tavoli di legno, le sedie colorate e i muri, dove l’artista Igor Scalisi ha dipinto i visi di tutti i personaggi che hanno lasciato la loro impronta di umanità, ogni giorno ti puoi imbattere in una parte diversa del mondo.

Ci sono i ragazzi dei centri di accoglienza che riscoprono l’aria di casa e spesso si ritrovano a pranzo, o un’assemblea di giovani del Gambia che discute delle libertà e delle elezioni nel proprio Paese, o ancora  l’entusiasmo di quel tessuto di associazioni di giovani palermitani e stranieri che ogni giorno si battono per i diritti dei rifugiati o per il futuro dei bambini del quartiere. La sera, invece, puoi perderti in un concerto di musica africana, elettronica e nel rock del panorama underground della città.

“Lo spazio è un punto d’incontro per le varie realtà del mondo del no profit e dell’associazionismo – dice Claudio Arestivo, uno dei soci – un luogo di scambio di idee che si connota per le relazioni”. E del resto, la dimensione interculturale si ritrova anche dietro al bancone dove si possono alternare i volti e le lingue di un volto dello Zambia, del Senegal, della Spagna o delle Afganistan. Crediamo – sottolinea invece Giovanni Zinna, un altro dei sei soci che tutti conoscono come Johnny – che il nostro possa rappresentare un modello di impresa sociale connesso con il territorio e portatore di sviluppo culturale, sociale ed economico. Pensiamo – aggiunge – che era necessario ri-colonizzare quest’area della città per avviare nuovi processi di partecipazione ed innescare un circolo virtuoso di attività produttive. E dopo tre anni, l’esperimento è sicuramente riuscito.