di Michela Becchis
Azzurro oltremarino si è un colore nobile, bello, perfettissimo oltre a tutti i colori; del quale non se ne potrebbe né dire né fare quello che non ne sia più. E per la sua eccellenza ne voglio parlare largo, e dimostrarti appieno come si fa. E attendici bene, però che ne porterai grande onore e utile.
( Cennino Cennini – Il libro dell’arte – CAPITOLO LXII)
Questo vaso fu, al pari di me, un amante doloroso, avidamente s’è sporto verso un amato viso. Quest’ansa che tu scorgi al suo collo è un braccio che già cinse un collo diletto.
(Omar Khayyām)
Blu di Persia. Il blu di Persia è un colore che più di altri evoca nel nostro sguardo lo splendore di un incantesimo. Anche l’antico nome occidentale si legava alla provenienza esotica e orientale del lapislazzulo che partendo dall’Afghanistan arrivava con le carovane ai bordi del Mediterraneo mediorientale per imbarcarsi e viaggiare alla volta delle più preziose pagine miniate, delle più suntuose tavole dipinte, dei più sfavillanti affreschi europei. Il suo nome era, infatti, blu oltremarino. Da quel luminosissimo mare arriva fino a noi oggi e lega il suo splendore, il suo respiro, al lavoro di una giovane artista iraniana che risiede a Roma da qualche tempo: Leila Mirzakhani.
Leila lavora da qualche anno immersa nel suo blu e la sua ricerca trova in questo colore il suo elemento perfetto per narrare a se stessa e, a chi visita le sue mostre, lo srotolarsi della vita, il suo essere presente e passato, il suo rapporto con la malinconia che non è tristezza, con la nostalgia della cultura del suo Paese, delle architetture dimenticate, degli spazi sigillati in una contemporaneità che, se non li cancella, li sigilla in una sorta di bolla fuori dalla dialettica del tempo, ma non del ricordo. Chi osserva i lavori di Leila, sente la necessità dell’abbandono a questo flusso luminoso e guardare diventa respirare, far parte del soffio di un’esistenza che non è più solo quella dell’artista. Parlare di soffio dell’esistenza non è casuale perché Leila unisce spesso la sua visività con l’antica cultura letteraria persiana e in particolare con la grande tradizione sufi, ma anche con la tradizione poetica del celebre matematico vissuto a cavallo tra l’XI e il XII secolo, Omar Khayyām e le sue famose quartine dedicate alla vita, alla sua irrazionalità, alle sue passioni.
Quella che segue è una breve conversazione che si è svolta davanti ai suoi ultimi lavori raccolti nella mostra SCORRERE esposti alla Galleria “La Nuova Pesa” di Roma.
M.B. Infinite le tue linee e concedersi il tempo per farsi catturare da loro, non vuol dire mai esserne ipnotizzati, ma entrare a far parte delle vibrazioni e dell’energia che fai produrre loro
L.M. Questo incontro delle linee, il loro susseguirsi costruiscono una vita, costruiscono una storia e ogni linea traccia un tempo lunghissimo e un frammento di esistenza e le linee insieme costruiscono un’immagine del vissuto come in un tappeto il lento incrociarsi dei fili dà vita alle immagini. L’esistenza è l’infinito allinearsi di secondi che richiedono pazienza, dedizione e a volte anche sacrificio. Per me dipingere queste linee per ore, spesso in ginocchio, rappresenta anche l’impegno fisico al limite dello stremo, lo stesso impegno che ci vuole a vivere. Credo sia necessario mettere in gioco il proprio corpo per trasformare, sublimare l’energia in linee
M.B. Le tue linee sono a mano libera?
L.M. Sì, io vado sempre a mano libera. Comincio una linea, l’opera non ha una forma prestabilita, ha un’idea. In un certo senso la forma che assume quella linea è una sorpresa anche per me, per me fare una linea è come buttare un sassolino su una superficie d’acqua e osservare il gioco dei cerchi, la loro durata
M.B. E la memoria come funziona nelle tue opere?
L.M. La memoria è un aspetto più nascosto, più intimo del tempo perché la nostalgia è sempre per un tempo passato nel tempo presente, è come se venissero collegati due punti con una linea. I miei lavori indagano proprio quella linea, interessa la visibilità del tempo nostalgico, perduto. Gli elementi architettonici iraniani che costruisco con le linee azzurre recano l’anelito dell’acqua, la grazia del suo rumore, il blu del cielo dentro i cortili delle case o quella meravigliosa luce azzurra che passa dalla finestre. Ma io non concludo questi elementi, li lascio come congelati, come se l’acqua non cadesse più dalla fontana, la luce non toccasse più il pavimento, come se rimanesse un’immagine parziale, una bellezza interrotta laddove la modernità sembra farsi antagonista della bellezza stessa. Questo accade ovunque, ma io lo colgo molto quando penso al mio Paese.
M.B. Tu parli espressamente di “vibrazioni”
L.M. Ogni manifestazione del mondo è vibrazione, anche il nostro semplice camminare, tutto corrisponde a un ritmo e io cerco di imitare il ritmo della natura che sembra avere un ritmo casuale e che invece risponde a una forma precisa che sentiamo sulle superfici, sulla superficie della nostra pelle, che sentiamo inconsciamente nelle onde elettromagnetiche, l’incresparsi appena visibile dell’acqua, di certe nuvole…
M.B. Questo blu che aiuta a respirare è una scelta che ovviamente ti lega ancora di più alla tua terra
L.M. Il blu è un colore che in un Paese così strettamente legato al deserto viene particolarmente apprezzato perché ritenuto il colore dell’acqua ovviamente. Ma per me è anche una doppia scelta; una certamente legata al semplice gusto qui e ora, l’altra al mio interrogarmi su le due superfici più ampie con cui noi ci misuriamo, il cielo e il mare, e sapere che in un certo senso non sono reali. Il blu del cielo non esiste, è interazione di luce con l’atmosfera e così il colore del mare, il blu di cui noi siamo riempiti, di cui è riempito il nostro sguardo non c’è, è ideale. Ed è per questo che è per me il colore del sogno, della memoria, di una cosa che c’è ma al tempo stesso non è reale.
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