Prima di arrivare all’Arte: il MaaM

di Michela Becchis.

«Le parole sono ancelle d’una Circe bagasciona,

e tramutano in bestia chi si lascia affascinare dal loro tintinnìo.»

                                                                                               (Carlo Emilio Gadda, Meditazione milanese)

Oggi sono molti quelli che sanno cosa sia il MaaM di Roma. Anche nel semplice girovagare nel web, prim’ancora che nella periferia di Roma, si scopre che questo luogo è il terzo polo di arte contemporanea della città, dopo gli istituzionali contenitori del Maxxi e del Macro. Una certa istituzionalizzazione è ormai parte anche della fisionomia del Museo dell’Altro e dell’Altrove se parecchie delle indicazioni preliminari sono sul sito turistico ufficiale del Comune di Roma che ci rimanda al percorso con i mezzi pubblici, agli orari e i giorni di apertura e chiusura. In quelle poche righe c’è anche una frase che colpisce: la sua non asetticità [è] il suo grande punto di forza. Colpisce l’idea che un centro di arte contemporanea venga ancora pensato come asettico e che quindi chi si sottrae a tale stereotipo acquisti vigore, forse un tale pensiero evidenzia un atteggiamento antiquato, se non addirittura da museografia coloniale. Il mondo è pieno di prestigiosi centri di cultura e sperimentazione artistica che certo non fondano la loro scientificità, nelle mostre, negli eventi, nei convegni, sull’asetticità. Sono luoghi aperti, di confronto di culture e i luoghi del meticciato, per loro natura, asettici non riescono a essere. A rischio di passare per provinciali stupiti e a occhi sgranati, non si può non ricordare le famiglie, le coppie, i ragazzi, i gruppi di amici, gli artisti di strada che al Southbank Centre di Londra, sede anche della prestigiosissima London Philarmonic Orchestra, passano il tempo mangiando, offrendosi piatti di terre lontane, giocando e chiacchierando.

Cos’è allora l’assenza di asetticità che contraddistingue il MaaM? Andando a leggere il significato della parola sul severo Vocabolario Treccani, si viene a sapere che il suo senso figurato sarebbe, in realtà, la dannazione di qualunque luogo di produzione artistica o di esibizione di arte: Che è privo di forza creativa, di personalità, di mordente, o che, nelle sue manifestazioni, si rivela freddo, arido, senza calore, privo o incapace di passioni, di preferenze. Tutto questo non si può augurare a luoghi come i due musei cittadini, il Maxxi o il Macro, ma nemmeno alla collezione di arte antica dei Musei Capitolini.

Un museo asettico è, nella sostanza, un museo morto. Quindi non resta che pensare al percorso logico che porta il sito del Turismo del Comune di Roma a scegliere quel non asetticità per connotare il centro di produzione culturale che si trova a via Prenestina 913. Non si creda che insistere quasi nevroticamente sulla parola sia solo un esercizio di polemica sterile, perché nelle parole c’è la sostanza del messaggio. Non asettico è un modo eufemistico, ma da falsa coscienza, di dire sporco, scrostato, annerito, umido, con i muri sbrecciati. Perché quella è un’occupazione ed è un’occupazione di un rudere industriale che per anni fu abbandonato nel mezzo di un pezzo di città abbandonata. Oggi, varcando il cancello dell’ex Salumificio Fiorucci, al visitatore la prima cosa che viene in mente è di andare a vedere le oltre 400 opere di arte contemporanea che in questi anni hanno trovato alloggio in quegli ambienti. Molte delle opere dialogano con l’ambiente che le accoglie, fosse stato il corridoio percorso dai maiali prima di essere uccisi, ecco allora una delle prime opere prodotte al Maam e cioè La cappella porcina e-MAAMcipazione di Pablo Mesa Capella e Gonzalo Orquín, o la stanza delle vasche di dissanguamento, con le crude opere di Nicola Alessandrini e Vincenzo Pennacchi.

Ma quello che deve rimanere come elemento di riconoscibilità del Maam non può che essere il fatto di essere un’occupazione che resiste e che certo resiste perché dall’arte protetta, ma che all’arte che lì viene prodotta regala un che in più che è esterno all’opera e cioè di essere in un luogo dove si è provato e si prova a far convivere donne, uomini, famiglie giunti in città dall’Ucraina, dal Perù, dal Marocco, dalla Romania. E poi entrarono lì per la loro prima occupazione gli “Zingari”, tra i più negletti e odiati esseri umani del pianeta, più scansati di qualsiasi migrante, eppure portatori di una cultura ricchissima che è anche, per sua natura, cultura dell’accoglienza.

Dite voi se non è questa vera arte non asettica.            (continua)