Da profughi a squadra di corsa allenata da una campionessa

Daniela Cavini – Firenze.

Sono forti, sono agili. Sono scappati da un passato pesante, pieno di ombre. Adesso corrono verso il futuro: e qualcuno è pronto a diventare un campione. E’ la squadra di corsa dei richiedenti asilo della Toscana, ce ne sono due in tutta Italia (la seconda a Bologna). E’ guidata da Milena Megli, quattro volte campionessa mondiale di marcia (master), quattro volte campionessa europea, Atleta dell’Anno nel 2008 per la Regione Toscana. Dopo aver chiuso con l’attività agonistica, Milena si è dedicata al walking. Sul suo cammino, a fine 2015 incontra un gruppo di migranti in cerca di una nuova vita: oggi li allena. Sono 15 ragazzi stranieri che chiedono protezione internazionale, vengono dal Sub Sahara (Nigeria, Ghana, Sierra Leone, Mali e altri), partecipano al progetto “Accoglienza Solidale”, promosso dall’Aics. Oggi lei corre davanti a loro. Ma anche accanto a loro.

Chi è Milena Megli?  

Un’atleta che ama profondamente lo sport, perché l’ha aiutata molto. E che pensa che possa aiutare anche gli altri.

In che modo?

Come mezzo di crescita personale. Io ho un vissuto familiare difficile, lo sport mi ha aiutata a prendere consapevolezza di me, ad acquisire fiducia, affrontare i momenti difficili. Ha rafforzato la mia personalità e fatto di me quello che sono.

C’è stato un incidente…

Un brutto incidente stradale, nel 2009, proprio alla vigilia della chiusura dei Campionati Europei. Era per me un’occasione speciale, volevo terminare la mia carriera agonistica con una bella prestazione, chiudere alla grande. E poi, ecco questo colpo basso: l’incidente, la diagnosi di frattura del malleolo, una parte fondamentale per una marciatrice. Ero disperata: mi dissero che avevo chiuso.

E invece?

Invece in un anno, con la fisioterapia e una grande forza di volontà, sono riuscita a ricostruirmi. L’anno successivo sono rientrata in nazionale, ho partecipato ai Mondiali Master in Canada, e ho vinto entrambe le mie gare, sia i 3 km che i 10 km. Una lezione che tengo ben presente quando esorto i miei ragazzi a non mollare.

Chi sono questi atleti? Come li ha incontrati?

Era dicembre 2015, ci siamo visti ad una manifestazione sportiva. Loro stavano in gruppo, un po’ appartati. Li ho avvicinati, incuriosita. Volevo sapere di loro. Così ho scoperto che erano arrivati da poco da vari paesi dell’Africa sub-sahariana, e che quella era la loro prima gara. Ho capito che potevo offrire loro qualcosa di importante, di utile. Potevo allenarli.

Lei mette a disposizione un progetto sportivo, il ‘Walking and Run’: cosa chiede in cambio?

Da un anno li alleno una volta la settimana, ogni martedì. La domenica andiamo a fare le gare. Chiedo il rigore, l’impegno che la pratica del cammino e della corsa domanda. Una cosa che facevano fatica a comprendere, all’inizio.

Che cosa è stato più difficile?

Questi ragazzi vengono da una realtà completamente diversa.  La prima volta che ci siamo incontrati si sono presentati in ciabatte…  E difficile da capire. Non avevano neppure l’orologio, era impossibile inquadrarli. Prima ancora di iniziare a correre, ho dovuto lavorare per renderli autonomi. Per impadronirsi di meccanismi semplici, che per noi sono scontati perché ci cresciamo dentro, ma non è così.  Ho cercato di offrire l’esempio, con coerenza. E loro sono stati rapidissimi nell’imparare a gestire la propria vita, prima ancora che a fare sport. Hanno riacquisito quella stima di se stessi che era andata distrutta dal vissuto precedente.

E’ questo l’aiuto che dà lo sport?

Sì, i ragazzi arrivano completamente destabilizzati: grazie all’impegno riescono a prendere coscienza delle proprie capacità, a ritrovare fiducia. Lo sport insegna ad accettare le sconfitte, a far toccare con mano che se si cade bisogna alzarsi e ripartire. Dopo l’allenamento mi dicono che si sentono bene, che sono felici. Addirittura adesso qualcuno mi racconta di andare correre quando si sente giù, per affrontare la vita quotidiana.

Oltre allo sviluppo personale, crede che lo sport possa essere un mezzo di integrazione sociale?

Assolutamente. Lo sport raggiunge tutti, usa un vocabolario universale, non conosce lingue o colori di pelle, non parla di politica né di religione. E’ un potente mezzo di inserimento sociale. Quando ho cominciato, ho chiesto aiuto ai miei contatti nell’ambiente, avevo bisogno di tutto, dalle scarpe all’abbigliamento. Ho ricevuto la solidarietà di molti negozi, anche le società sportive hanno risposto in modo positivo, in qualche caso offrendo addirittura l’iscrizione gratis ai ragazzi. Quando facciamo le gare, non ho mai sentito ostilità intorno a noi, piuttosto simpatia, solidarietà.

Avete già vinto qualcosa?

Sì, i ragazzi sono davvero dotati, in modo naturale. Alcuni stanno collezionando medaglie. Uno di loro ha vinto 4 corse.

E’ vero che siete stati ufficialmente riconosciuti come squadra di richiedenti asilo? 

E’ vero, avremo presto anche una divisa. Il nostro nome? AICS Accoglienza Solidale ASD. Lo spirito di squadra si sta diffondendo fra i ragazzi, vedo la differenza fra quelli che ne fanno parte e gli altri…   L’interazione si trasla dallo sport alla vita quotidiana, si sostengono l’un l’altro.

Le parlano mai della loro vita, di cosa li ha spinti a partire?

All’inizio no, ed io non facevo domande, per non rompere equilibri, non riaprire ferite. Ma adesso piano piano mi raccontano le loro storie, di come sono arrivati, delle famiglie lasciate indietro. C’è anche chi non ha più nessuno, laggiù. Però credo sia importante parlare del futuro più che del passato: hanno bisogno di speranza, di stimoli. Non di ricordare.