Roma resiliente

Il performingmedia storytelling per trarre storie dalle geografie di una città plurale.

di Carlo Infante   www.urbanexperience.it

 

Roma è a più strati.  Ma non è solo questione di sedimenti geologici o archeologici ma di impronte umane, culturali e sociali. Lo è da quando è diventata la prima metropoli, “città madre” che ha attratto ed accolto per secoli. Dall’Antica Roma ai fasti barocchi che hanno magnetizzato l’immaginario mondiale non solo per la sua dimensione aulica ma per una vitalità conturbante che ha fatto scuola di vita.  La “classe creativa” di tutto il mondo l’ha eletta per secoli come una sua meta ideale, già prima del Gran Tour d’elezione romantica, fino all’edonismo della Dolce Vita e, in contraltare, alle eresie corsare di Pasolini nell’alveo plebeo di Roma.

Si, questa città è a più dimensioni: è fulcro della cristianità cattolica ma ha anche espresso quella Repubblica Romana che nel 1849 promulgò una Costituzione tra le più liberali e democratiche del suo tempo, proponendo, tra l’altro, laicità dello Stato e libertà di opinione.

Ci viene in aiuto pensare che sia Giano, la divinità con due volti, entità rivolta ai passaggi, la matrice culturale di Roma plurale.

E’ con l’impronta di questa idea dei passaggi continui, coniugando identità e differenze, che con Urban Experience esploriamo Roma, parlandola: conversando di ciò che ci accade “giocando la città”, mentre camminiamo, ascoltandoci grazie ai sistemi whisper-radio, con quelle cuffie che spesso vediamo indossare ai turisti in gregge e che noi usiamo con un approccio psicogeografico nello sciame dei walking-talking head erranti nella città. Questi passaggi continui tra le diverse anime di Roma esprimono un approccio che molti stanno definendo urban storytelling e se ne sta facendo anche una gran moda.Esploriamo da anni rioni e borgate, raccogliendo quelle microstorie che compongono un mosaico vitale di resilienza, quella qualità creativa di adattamento alla complessità di una realtà urbana deflagrata dagli anni Sessanta in un piano sregolato di superfetazione urbanistica. E allo stesso rileviamo echi di un genius loci che rivelano sia le modalità di antropizzazione (come i flussi migranti, da quelli regionali con l’Unità d’Italia a quelli globalizzati) sia gesta memorabili e terribili, come quelle che hanno reso al Quadraro una medaglia d’oro per il rastrellamento nazista del 1944.

Con Urban Experience abbiamo condotto decine (qualche centinaio ormai…) di walkabout, le conversazioni nomadi-esplorazioni urbane attraverso cui facciamo quel performingmedia storytelling che permette d’inscrivere la narrazione di un territorio mentre si cammina e al contempo realizzare delle mappe esperienziali  per trarre storie dalle geografie, rilanciandole nel web. Format di una comunicazione ludico-partecipativa tesa a creare le condizioni abilitanti per rendere protagonisti i partecipanti delle esperienze urbane, creando spazio pubblico con le proprie azioni e dare senso ad un concetto come quello di smart community altrimenti destinato a rimanere affermazione astratta.

Smart Community per la resilienza urbana

Il modo migliore per affrontare il concetto di smart community è quello di tracciare un percorso da quando, nel 2012, s’è avviato il progetto Roma Smart City con Stati Generali dell’Innovazione che Urban Experience ha contribuito a fondare.

E’ evidente che c’è una connessione profonda tra smart city e smart community, non solo perché non si farà mai una città “intelligente” senza l’intelligenza dei suoi cittadini, ma perché questi processi non si attivano solo con le visioni architettoniche e urbanistiche ma con le azioni espresse da una creatività sociale diffusa. L’esperienza diretta e non solo teorica permette di trarre elementi che possono essere utili per impostare un ragionamento sulle smart community sulla base di pratiche solidamente inscritte in teorie sviluppate in questi decenni a proposto dell’innovazione sociale e culturale e in parte raccolte nel mio ultimo libro “Performing media 1.1. Politica e poetica delle reti” (Memori, 2006).

Si delinea così un percorso che dagli anni Sessanta con l’esperienza situazionista e con gli happening statunitensi si arriva alle smart mob di cui ha trattato Howard Rheingold in “Smart Mobs. Tecnologie senza fili, la rivoluzione sociale prossima ventura” (Cortina, 2003) esplicitando il rapporto tra azioni e nuovi media, condizione abilitante per attivare smart community e reinventare lo spazio pubblico nell’interazione tra web e territorio, come stiamo facendo con il performingmedia storytelling a suo tempo impostato con i geoblog (quando li inventammo a Torino per le Olimpiadi 2006) e oggi con il mapcasting, trasmettendo mappe in tempo reale con un’App. Scrivendo storie nelle geografie on line, in una poetica glocal che traduce l’esperienza locale nel globale del web, rendendo più pubblico e condiviso lo spazio pubblico.

Lo spazio pubblico generato dalle azioni

Lo spazio pubblico è dato non solo dalle sue architetture ma dai valori d’uso di chi li rende tali. Nell’arco dei secoli, dall’agorà greca e dal foro romano, passando per l’invenzione barocca delle piazze come dispositivo ideologico (pensate al sistema urbanistico di Sisto V con l’utilizzo degli obelischi) e delle place royale francesi, è possibile riflettere su come lo spazio urbano abbia espresso una funzione civica, sia di emancipazione sia di speculazione metafisica o teoretica che ne sottrae dispoticamente il valore sociale.

Dopotutto scendere in piazza, attraverso la definizione “diritto di manifestare” è un valore riconosciuto dall’articolo 21 della Costituzione italiana. Le generazioni che dal ’68 (giusto per citare una data simbolica, per molti aspetti spartiacque) hanno investito con le loro azioni ribelli lo spazio pubblico, rimodellandolo con cortei antagonistici, esprimendo una tensione esemplare nella ricerca di un nuovo rapporto tra moltitudini e città. Uno slogan come “riprendiamoci la città”, coniato da Lotta Continua negli anni Settanta, lo ritroviamo, con un nuovo impatto, nelle azioni di Occupy (emblematico quello di New York a Zuccotti Park, noto come Occupy Wall Street) o negli accampamenti degli indignados spagnoli, nel 2011. Queste irruzioni nella quotidianità urbana trovano un background culturale nell’Happening (concetto che trova origine nelle performance di Alan Kaprow, già nel 1959, e del gruppo Fluxus, negli Stati Uniti) e nelle azioni psicogeografiche dei Situazionisti (nati nel 1957 tra Italia e Francia) che con i concetti di derive e di détournement liberano un’energia creativa capace di spiazzare, disorientare, la percezione urbana. E’ sulla base di queste sollecitazioni (già echeggiate dal gruppo degli Uccelli nel ’68) che durante il Movimento del ’77 gli Indiani Metropolitani esprimono, in particolare a Roma (dove nascono, all’interno dell’occupazione dell’Università La Sapienza), una serie di happening urbani in cui la politica si cortocircuita con la poetica e l’ironia di slogan d’evocazione dada.

Un dato ulteriore da rilevare in questa riflessione sull’impatto creativo, eretico e partecipativo, con lo spazio pubblico è l’irruzione dei nuovi media nell’azione sul campo. Già le radio libere negli anni Settanta svolsero una funzione emblematica, non solo per il tam tam d’autoconvocazione ma per l’utilizzo delle chiamate in diretta (attraverso le cabine telefoniche disseminate in città) per informare dell’andamento delle guerriglie urbane (come accadde a Milano sulle frequenze di Radio Popolare, a Bologna su Radio Alice e a Roma su Radio Città Futura). Oggi i nuovi media sono fondamentalmente gli smart phone che dall’uso degli sms all’instant blogging via twitter, stanno delineando un’opportunità straordinaria di comunicazione interattiva e mobile che espande le opportunità di auto-convocazione che vede interagire l’azione nel territorio con il web, ambiente da considerare come un nuovo spazio pubblico a tutti gli effetti.

Smart Mob: lo sciame intelligente

E’ da questo dato che è partita l’analisi di Rheingold su come i social network possano inventare nuove forme di socialità. Si tratta di un tempo in cui facebook non c’era ancora (nasce nel 2004 e decolla 3 anni dopo) e ciò dovrebbe farci riflettere su come si sia mancata l’opportunità di sviluppare piattaforme realmente sociali ( i tentativi ci sono stati: il fenomeno dei blog e prima ancora i newsgroup, e poi la rete dei Meetup cavalcata da Beppe Grillo, realtà che analizzai 10 anni fa)  lasciando poi a miracolati come Zuckerberg il campo libero.

Rheingold studiò le modalità di messaggistica, rilevando come, sulla base di questi scambi sintetici di comunicazione scritta , nascano delle relazioni e delle strategie di auto-organizzazione nell’azione urbana. Azione e comunicazione possono così armonizzarsi, dando luogo a comportamenti che si basano sulla ricerca di coordinamento, senza necessariamente conoscersi fisicamente. Nella comunicazione istantanea si crea un flusso continuo di informazioni che tiene il canale aperto, mantiene una rete di connessione sempre viva. Un aspetto che oggi il twitting esalta (e oggi ancora di più WhatsApp e Telegram).

Smart mob è stato il concetto emblematico per questo flusso, anche se oggi è banalizzato con il termine Flash Mob.

Ma non tutti sanno che Mob per Rheingold non deriva solo da mobile, bensì dall’accezione che l’etologo Konrad Lorenz aveva indicato come declinazione del verbo to mob, “assalire”, per definire l’attacco di uno stormo di uccelli contro un predatore più grande, deciso a insidiare il nido. La parola mob indica quindi sia la moltitudine autorganizzata sia il mobile, la telefonia mobile e la comunicazione online. Ma il concetto viaggia bene in tandem: moltitudini che iniziano ad usare le tecnologie mobili per far accadere eventi intelligenti, improvvisi, ludici e creativi. Questi eventi si configurano come azioni connettive che nascono spontaneamente per coordinarsi e condividere esperienze ed energie: comunità virtuali (fenomeno che Rheingold ha trattato in un suo libro del 1994) che non stanno più ferme davanti allo schermo, ma che si muovono nel territorio, agiscono in una città come uno sciame intelligente.

E’ su questa linea di tendenza che sono inscritte le azioni di Urban Experience che con  i walkabout giocano le città nell’interazione tra web e territorio attraverso l’uso creativo di performing media.

Walkabout significa “cammina in giro” e si riferisce al viaggio rituale che gli australiani aborigeni intraprendono attraversando a piedi le distese dell’outback, le aree interne più remote che si estendono in quelle semi-desertiche del bush. Il termine fu coniato dai proprietari terrieri bianchi australiani per riferirsi agli Aborigeni che sparivano dalle loro proprietà, e dei quali si diceva gone walkabout (“andato in walkabout”) e poi rilanciato da Bruce Chatwin in “La via dei canti” (Adelphi, 1988) e di cui mi interessai a Melbourne (dove curavo una rassegna di videocreazione), nel 1987, trattando con amici comuni della sensibilità psicogeografica degli indiani metropolitani.

Urban Experience gioca con questa definizione associandola a “talkabout” (parlare di…), rilanciando così le esplorazioni urbane che coniugano cose semplici come passeggiate e conversazioni con le complessità inedite del performingMedia-storytelling. Si  tratta di palestre di cittadinanza attiva in cui si conversa “di fianco” mentre ci si guarda intorno, “apprendendo dappertutto”, per attivare dei laboratori dello sguardo partecipato ed esercizi poetici e politici di resilienza urbana. Si condivide un cammino e il parlare trova un suo andamento, sollecitando partecipazione e sottraendo rappresentazione, come  in una passeggiata peripatetica di flaneur postmoderni, con i piedi per terra e la testa nel cloud.

 

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  1. Riprendiamoci la città, per mano.

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