di Melita Richter – Trieste
Ci si potrebbe chiedere, perché promuovere un incontro interreligioso nella città dove convivono fedeli di 18 diverse confessioni, dove i templi di diverse fedi segnano l’identità del territorio e testimoniano della sua radicata storia multietnica e multi religiosa. Parlo di Trieste, città-crogiolo di popoli, culture e confessioni, ma anche città di nuove immigrazioni delle più disparate provenienze. In questo contesto è più noto il lato pubblico ed amministrativo dei percorsi di integrazione (e non), mentre sono meno note le esperienze e le fatiche che incombono sui soggetti posti tra la cultura d’origine e quella del paese di accoglienza. Queste fatiche nella trasmissione dei valori della propria cultura e, allo stesso tempo, il rispetto e l’acquisizione dei nuovi codici culturali, sono vissute direttamente dalle famiglie di orientamento religioso diverso dal cristiano cattolico, dominante nel paese.
Rispettando gli incontri ecumenici che di volta in volta raccolgono i vertici religiosi attorno alla preghiera, o a un accorato grido per la pace e la solidarietà nel Mondo, quello che abbiamo voluto realizzare, sempre nel contesto del Progetto “Conoscere, condividere rispettando le differenze” dell’associazione di mediatori culturali Interethnos, è stato diverso: osservare l’esperienza interreligiosa nel quotidiano, trovare uno spazio di scambio di esperienze di vita delle singole persone e in particolare dei genitori di orientamenti religiosi diversi. Assieme a loro, conoscere le modalità di trasmissione dei valori spirituali alle giovani generazioni, ai figli e alle figlie.
Che non basti volgere lo sguardo esclusivamente ai neo arrivati in città, ma che è importante conoscere le vicende delle comunità religiose storiche di Trieste, come quella ebraica, lo ha fatto presente Nathan Neumann, raccontando la sua esperienza di bambino, quando si è reso conto per la prima volta di essere visto come un estraneo alla maggioranza, un ‘altro’. Non era capitato nei primi anni della scolarizzazione visto che allora frequentava la scuola elementare ebraica. Successe alle medie statali, dove gli venne chiesto: “Ebreo? e quando siete arrivati?” Non comprendendo la domanda, disorientato, il bambino chiese a casa: “Noi, quando siamo arrivati in città?” La risposta fu: “Quattrocento anni fa”. Il breve aneddoto di Nathan ha dimostrato quanto sia un uso radicato quello di accostare la diversità religiosa all’essere straniero, uno non del luogo. Se sei di un’altra religione, sei altro. Una simile alterità non l’ha testimoniata soltanto chi ha poi raccontato la propria appartenenza mussulmana (il principale ‘altro’ alla media dei cristiani), ma anche chi è cristiana di religione greco-ortodossa come Kaliopi Paghanopoulou che ha trovato nelle pratiche cattoliche italiane ‘una rigidità’ sconosciuta alla tradizione greca e al suo rapporto con la Chiesa. Lei ha comunque voluto che i figli divenissero cattolici per favorire la loro integrazione nel contesto scolastico, cittadino, ma non fu così. Soprattutto per il ruolo svolto dalla scuola che non insegnava la storia delle religioni, ma il catechismo. In questo contesto, i figli non sono mai stati accettati completamente, la figlia oggi frequenta la chiesa greca della madre. Simile è anche la storia di Klara Szabo, ungherese, luterana. Pure lei ha incontrato nella famiglia triestina del marito un cattolicesimo ‘indottrinato’. Interessante è la storia di Elena Cozzi, metodista. (La chiesa metodista assieme a quella valdese è unita a Trieste alla chiesa Evangelica Elvetica). Elena proviene da una famiglia di origini religiose diverse, cattolica e protestante. Partendo da questa diversità e dal suo credo metodista, quello che ritiene importante non è l’appartenenza a una chiesa, ma la trasmissione della cultura biblica. I figli una volta adulti potranno fare la loro scelta.
Un’intensa testimonianza dell’appartenenza mussulmana è arrivata da Fama Cisse, senegalese, giunta in città da giovane studentessa del Collegio del Mondo Unito. “Soltanto qui, in Italia e in Europa”, racconta Fama, “ho conosciuto l’estremismo islamico. L’islam che conosco io e i valori che cerco di trasmettere ai figli è quello di una scelta consapevole, libera, non costrittiva”. L’islam che lei ha vissuto in Senegal le sembra ‘più leggero’, aperto alla diversità, come lo è stata la mappa religiosa del suo paese e le usanze di convivenza in un vicinato di diverse origini religiose. Partecipare alle tradizioni dell’altro, rispettare le differenze, questi sono valori da trasmettere ai figli. Non si sa quale strada loro prenderanno, sostiene Fama, ma i valori spirituali possono essere loro da guida. Anche Nathan considera valido lo stesso percorso. Incerto se i figli continueranno a osservare la tradizione ebraica (a Trieste gli ebrei sono in netto calo), conclude: “quello che è importante è trasmettere l’affettività”. Fatima Umm Imram, arrivata dal Marocco, neppure lei ricorda la grande osservanza e religiosità nella sua infanzia, ma ricorda i valori che la sua religione le ha trasmesso. Sono quelli che lei oggi, da studentessa universitaria a Trieste, insegue: spiritualità e partecipazione. Una testimonianza di un altro spessore, sempre da una donna mussulmana, arriva da Khawla Al Saeedi, irachena, farmacista, che ha vissuto tre guerre in Iraq prima di optare per la fuga dal paese. Assieme al marito e ai quattro figli, saranno separati nel rocambolesco viaggio verso l’Europa, imbarcati, sopravvissuti al naufragio, divenuti “non cittadini”, clandestini che percorrono la via balcanica, un pellegrinare che toccherà il nord Europa, il sud dell’Italia, e ora la fermata è qui, a Trieste. Nella sua importante storia trasmessaci in un italiano ancora incerto, ma deciso, Khawla sosterrà come il punto fermo della sua convinzione: “Non è decisiva la religione, o la diversità religiosa, quello che conta è l’umanità.” In un altro modo lo hanno detto coloro che nel proprio percorso formativo non hanno vissuto in un ambiente religioso, come per esempio chi ha vissuto in un paese socialista. Lo racconta Jasmina Paunović, serba, consapevole che qui a Trieste la chiesa serbo ortodossa, assieme alla comunità serba, fa parte dell’identità storica del territorio, e questo fatto l’ha aiutata molto nella sua integrazione, ma da laica, lei affida la trasmissione dei valori e delle tradizioni al nucleo famigliare. Anche la giovane presidente della “Consulta degli immigrati residenti” del Comune di Trieste, Milica Marković, pure lei serba, considera il ruolo genitoriale decisivo nella trasmissione dei valori spirituali alle future generazioni. “Mantenere l’aspetto culturale e religioso propri”, dirà Milica “e, allo stesso tempo, abbracciare le usanze del luogo dove si vive”. Artbesa Hoxhaj, albanese del Kosovo, lo confermerà con la propria storia di vita. Di origine mussulmana, non ha mai conosciuto la sua religione, non ha una fede. E questo le manca. Neppure la sua integrazione in città è stata senza ostacoli, perché, ad ogni modo e in età formativa, è stata considerata ‘altra’ nonostante sia arrivata in città giovanissima e abbia percorso tutti i gradi della scolarizzazione a Trieste. Oggi segue la religione cattolica del marito, come i loro figli. Anche lei sosterà che sul piano personale, non ha importanza quale religione si pratichi, ma la fede, la spiritualità.
E di fede, come di un punto fermo nella vita ha parlato Ornella Serafini, appartenente all’Istituto Buddista italiano, che vive la Buddità come pratica religiosa che più delle altre lega la fede al concetto di gioia, di inseguimento della condizione di una vita libera e felice, di dignità di ogni essere umano.
Diversità di percorsi , similitudini, differenze.
Quello che l’incontro svoltosi a Trieste il 13 giugno scorso, nel bellissimo palazzo Tripcovich affacciato sul canale marino nel cuore della città, ha rivelato, è che il dialogo interreligioso non passa soltanto attraversi i vertici religiosi e gli incontri ecumenici in momenti eccezionali, ma che è importante offrire occasioni d’incontro dove le storie di fede sono storie di vita, di persone e di inevitabili spostamenti di popolazioni. E che la voglia di narrarsi, di ascoltarsi vicendevolmente non è un lusso, ma una necessità. Così si rafforzano le similitudini, si rispettano le differenze, le distanze, si focalizza l’attenzione sul diritto all’espressione della pluralità religiosa e spirituale. Assieme al ‘sacrosanto’ diritto alla laicità e al suo fondamentale valore europeo.
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