Una Via Crucis fra Palestina e Lampedusa

di Michela Becchis.

C‘è una chiesa a Milano stretta oggi tra i palazzi e le grandi firme, ma è una delle chiese di fondazione più antica della città; faceva parte di quelle cosiddette chiese minori che sorgevano intorno alla cattedrale ben prima che questa assumesse l’imponenza rutilante nota nel mondo.

La nostra chiesa fu fondata nel IX secolo, ma poi ricoperta -e di fatto rifondata- nel 1582 da una nuova architettura voluta dalla severissima religiosità di Carlo Borromeo.

C’è una chiesa a Milano che si chiama San Raffaele, non è una parrocchia, è una chiesa per meditare e riflettere sul più assoluto mistero del cristianesimo: l’eucarestia; lì le funzioni si celebrano ancora secondo il rito ambrosiano, quella liturgia in uso solo nella zona dell’antica diocesi di Milano. All’interno di questa chiesa a Milano, dentro una visibile storia di cattolicesimo controriformato e intransigente, c’è un’opera che si slancia dolorosamente verso quella Terra Santa che per un popolo è diventata solo Terra Negata. Dentro San Raffaele, infatti, c’è una emozionante e suggestiva Via Crucis. Questa dolorosa ricostruzione dell’ascesa di Cristo verso il Golgota, inventata dai Francescani  nel XIII secolo affinché la sofferenza di uno diventasse visibile rappresentazione del dolore del mondo, è diventata una sorta di locuzione per indicare il più aspro dei cammini che degli esseri umani possano compiere e fra le mille e mille Viae Crucis che oggi migliaia donne, uomini, bambini, interi popoli sono costretti a intraprendere sicuramente quella che ormai ha troppi anni è quella del Popolo Palestinese.

L’artista che ha pensato questa istallazione nella chiesa milanese è Emily Jacir, nata a Betlemme nel 1972 e che oggi divide la sua vita tra Ramallah, New York e Roma.

Emily durante i suoi studi a Roma, ormai anni fa, aveva cominciato a interessarsi alla circolazione degli oggetti, delle immagini, degli esseri umani nel Mediterraneo soprattutto nel Medioevo, prestando particolare attenzione al movimento delle reliquie tra Italia e Palestina. Durante questo studio, confluito, insieme al progetto per la Via Crucis, nella pubblicazione collettiva TRANSLATIO (2016), l’artista ha anche sentito un particolare rapporto esistente tra Italia e Palestina, fatto non solo di antica spiritualità ma anche di modi di vivere:

“L’Italia è un paese arabo! Per me l’arabo è come un dialetto latino, come il siciliano o l’Arbëresh!” dice durante una chiacchierata con la critica Manuela De Leonardis. “Frequento Roma da quando avevo 14 anni, qui ho fatto il liceo e ho iniziato l’università. A Roma mi sento a casa, la città mi conosce. Felicità, tristezza, amori, drammi… Anche la mia mente politica è nata qui. La prima manifestazione a cui ho partecipato è stata a Roma, negli anni ’80, contro McDonald’s che poi ha aperto in piazza di Spagna”.

Ma nella Via Dolorosa progettata per San Raffaele non c’è solo il Popolo Palestinese, c’è anche il frutto di un viaggio compiuto a Lampedusa, ci sono i resti delle barche, i pezzi di vetro, frammenti di fotografie e documenti rinvenuti nei cumuli di spazzatura, contemporanee reliquie di un martirio davvero non cercato.

E così, entrando nella chiesa, si compie quel percorso composto dalle classiche 14 “stazioni” previste per la liturgia. Ci sono quattordici tondi di alluminio che si legano alla forma dell’ostia eucaristica, sette scritti in italiano e sette in arabo, e sotto a questi delle teche simili a quelle che normalmente contengono le reliquie, perché di reliquie si tratta, di ciò che resta dietro, dopo che una tragedia si è consumata. Ecco allora convivere le cartucce di M16 raccolte in Cisgiordania, le chiavi delle case requisite ai Palestinesi nel ’48, una vecchia kefiah, una valigia consunta, un pezzo di un abito tradizionale, il filo spinato, le fotografie restituite dal mare di Lampedusa, un frammento di barca e un ricordo di un ragazzo che ostinatamente chiedeva di restare umani, Vittorio Arrigoni.

Ognuna di queste teche contiene un oggetto che si lega al nome della stazione della Via Crucis cristiana in una simbolica corrispondenza di straordinaria suggestione che obbliga noi «della razza di chi rimane a terra», per dirla con Montale, a sentire il peso di una croce e al tempo una condivisione profonda di un dolore lacerante racchiuso in quella somma di oggetti piccoli e tragicamente muti.     http://www.artache.it/via-crucis-2016.html

Commenta per primo

Lascia un commento

L'indirizzo email non sarà pubblicato.


*