Uno sguardo musulmano sull’Induismo

di Viviana Schiavo.

L’India e la sua popolazione, così come li conosciamo oggi, sono il risultato di incroci culturali e storici che si sono susseguiti nel tempo. Senza dubbio, i gruppi culturali che più di altri hanno avuto un ruolo fondamentale nella formazione dell’identità indiana sono gli indo-ariani e gli indo-musulmani. In particolare, l’Islam, dopo un primo contatto nato grazie ai commerci già a partire dal VII secolo, si è poi diffuso nel subcontinente indiano dal XIII secolo, con il Sultanato di Delhi e poi, ancora di più, con l’impero Mughal. Ma in che modo hanno interagito induisti e musulmani? Ci sono stati dei veri e propri scambi o solo dei rapporti superficiali? In definitiva, con quali occhiali i musulmani indiani, al governo ma in minoranza religiosa, hanno guardato l’induismo?

Per comprendere l’approccio musulmano verso l’induismo è necessario, prima di tutto, andare a vedere  velocemente quello che afferma il Corano in relazione alle altre religioni.

Nel testo sacro musulmano si fa riferimento esclusivamente a sei confessioni, quelle con cui i musulmani dell’epoca si confrontavano quotidianamente: quelli che hanno creduto, gli ebrei, i cristiani, i sabei, i magi e gli associatori. In ogni caso non si parla mai di religioni, quanto piuttosto di gruppi di credenti. In particolare, Coloro che hanno creduto sono i musulmani, ossia chi ha creduto in Muhammad e nella sua profezia. Per quanto riguarda i Sabei non si ha un’unica interpretazione, ma questo termine nel tempo è andato a descrivere gruppi religiosi di diverso tipo. L’interpretazione più accreditata è che la parola Sabei andasse ad identificare i seguaci di Giovanni Battista, ossia i Mandei, un gruppo caratterizzato dall’abluzione sacra e incentrato sugli antichi insegnamenti biblici. I Magi sono invece gli zoroastriani, dall’arabo Majūz, all’epoca di Muhammad presenti principalmente nell’impero Sassanide in Asia e Yemen. Infine, con il termine associatori, o Mušrikūn[1], invece si intende coloro che aggiungono a Dio degli associati, delle divinità, non credendo nel tawḥīd, l’unicità di Dio. Con questa categoria si fa riferimento ai politeisti arabi e non ai cristiani come spesso viene riportato o è stato interpretato in passato.

Molti sono i versetti coranici che affrontano questo tema, alcuni dei quali possono condurre a conclusioni diametralmente opposte a seconda che li si interpreti come una regola generale da applicare in ogni situazione o come il risultato di uno specifico fatto storico limitato nel tempo. Questa distinzione è alla base della differenza di approccio tra la teologia musulmana classica, tendenzialmente esclusivista e letteralista nella sua esegesi del Corano, e il sufismo, la mistica islamica caratterizzata da una visione inclusivista nei confronti delle altre religioni e da una lettura simbolica ed interpretativa del Corano.

A dispetto di alcuni versetti più rigidi e a tratti violenti, sono molti i versetti cosiddetti tolleranti, a conferma di un approccio pluralistico dell’islam verso le altre religioni. Il concetto che in questi viene espresso è quello secondo il quale è stato Dio stesso a creare la diversità, che quindi diventa qualcosa non da contrastare («Non vi servite dei vostri giuramenti come inganno fra voi» C 16: 92) ma piuttosto da preservare. Il concetto di pluralità come parte del disegno divino è ancora più forte se ci si riferisce alla cosiddetta Gente del Libro, ossia i seguaci delle religioni abramitiche, cristianesimo ed ebraismo. A questi due gruppi, Dio dice con chiarezza di continuare a seguire rispettivamente il Vangelo e la Torah, entrambi «guida e luce» (C 5: 44-46).

L’interpretazione estesa del concetto di «Gente del Libro», sulla base dell’analogia, ha portato all’inclusione, soprattutto in contesto locale, anche di altre comunità religiose fondate su un testo sacro, tra cui gli Zoroastriani e gli Indù. La mancanza di unanimità riguardo all’origine divina dei testi, però, ha fatto coniare per questi due gruppi la categoria di «Gente dello pseudo-libro». L’estensione nasce anche dalla pragmaticità di coloro che, per condizione storica e sociale, si trovavano a doversi confrontare quotidianamente con fedeli di religioni diverse da quelle menzionate nel Corano. Nel caso dell’India, per esempio, i governanti musulmani erano ben consapevoli di essere una minoranza in un mare di fedeli non musulmani ed hanno cercato di relazionarsi realisticamente a quelle che venivano definite «le religioni dell’India».[2] A questo proposito, Carl W. Ernst afferma che, in linea generale, l’islam ha riconosciuto le religioni indiane nella misura in cui queste potevano essere assimilate o tradotte all’interno della religiosità musulmana, ma il problema principale è rimasto sempre la relazione con l’idolatria, che non poteva in nessun modo essere accettata.

I primi commentatori arabi musulmani, non parlavano mai della religiosità indiana utilizzando il termine induismo. Piuttosto facevano riferimento ad un insieme di più religioni, nello specifico quarantadue. Il primo a parlare di un’unica religione indiana sembra essere stato lo studioso al-Bīrūnī, al servizio del conquistatore afghano Maḥmūd di Ghazna. Egli fu il primo grande specialista arabo della filosofia e della religione indiana, che studiò con grande obiettività, traducendo molte opere locali dal sanscrito all’arabo, in un momento in cui molto poco si sapeva al di fuori dell’India della sua ricchezza culturale. Nonostante questa onestà intellettuale, è possibile intravedere la base di partenza musulmana nell’interpretazione dei concetti indiani.

Per esempio, il termine indiano deva, ossia «Dei», «divinità», è stato tradotto da al-Bīrūnī con i termini arabi malāʾika («angeli») e rūḥāniyyāt («esseri spirituali») aggiungendo alla traduzione un’interpretazione teologica. Tuttavia, il suo rimane un lavoro pioneristico anche dal punto di vista dell’approccio: è evidente nel corso di tutta l’opera come il suo obiettivo non sia lo screditare l’altro, evidenziandone i punti deboli, ma la comprensione e la diffusione della conoscenza, al di fuori di ogni ideologia e proselitismo. Al-Bīrūnī mostra un grande rispetto verso la religiosità induista, che considera vera nello spirito e, come anticipato, diretta ad un solo Dio. Secondo lo studioso, però, i veri rappresentanti della religione induista sono i filosofi e i sacerdoti indiani, i Brāhman, mentre le masse sono idolatre e si fermano all’apparenza degli oggetti delle loro preghiere. È una convinzione condotta senza giudizio ed affermando che tale superficialità è riscontrabile anche nelle pratiche delle masse musulmane. Ad ogni modo, la concezione di al-Bīrūnī   di un’unica religione indiana e il suo studio razionale di quest’ultima è stato a lungo dimenticato, per poi essere riscoperto in Europa nel XIX secolo. Per questa ragione, la visione musulmana dell’induismo ha seguito la sua strada indipendente.

Tra le correnti musulmane che più si sono relazionate con le religioni indiane spicca la scuola filosofica išrāqī, «illuminazionista», fondata dal filosofo e mistico persiano Shihāb al-Din Suhrawardi. In particolare, l’illuminazionismo diventò particolarmente popolare in territorio indiano durante l’impero Mughal, stabilito nel XVI secolo da una dinastia musulmana turco-mongola. Tale dinastia, particolarmente conosciuta per la sua apertura e tolleranza, fece dell’illuminazionismo la base della sua teoria politica. Molte furono le opere tradotte dal sanscrito al persiano in questo periodo. L’approccio era sempre quello di creare dei parallelismi, assimilando quegli aspetti dell’induismo che erano compatibili con l’islam. Se da un lato la filosofia išrāqī forniva un riconoscimento di alcuni aspetti del pensiero religioso indiano in qualche modo islamizzandolo, dall’altro rimaneva aperto anche ad essere contaminato dalle nuove forme di pensiero con cui entrava in contatto. Questo spirito di conoscenza dell’altro e di apertura che caratterizzo l’era Mughal, fu particolarmente forte sotto l’imperatore Akbar, la cui grande tolleranza divenne una strategia politica per consolidare l’impero.

L’assimilazione delle religioni indiane non si è limitata ai testi scritti ed alla tradizione narrativa, ma ha abbracciato anche la sfera pragmatica, con l’appropriazione di pratiche induiste giudicate benefiche e che potevano avere un loro posto o un corrispettivo nell’universo islamico. In particolar modo, da questo punto di vista, l’incontro tra le due religioni è stato particolarmente proficuo nel campo del misticismo, con particolare riferimento alle pratiche meditative. L’esempio più lampante di questo tipo di appropriazione è quello dello hatha yoga[3], che divenne particolarmente popolare nei circoli sufi. Tale pratica e la successione di livelli metafisici raggiunti tramite la respirazione sono stati spesso associati ai supremi stati spirituali del profeta Muḥammad.

Un’altra modalità di assimilazione della pratiche induiste avveniva all’interno della più ampia categoria del magico. Quest’ultima è, infatti, presente nella cultura islamica fin dai primi tempi. In alcuni casi, questo parallelismo si è spostato ancora più indietro nel tempo, andando ad includere pratiche spirituali preislamiche, come la teurgia o il misticismo letterale cabalistico. Per esempio, in «La piscina del nettare», il testo arabo più importante sullo hatha yoga, la convocazione delle divinità yogini viene rappresentata con la pratica di convocare gli spiriti dei pianeti attraverso dei mantra. L’invocazione alle divinità planetarie appartiene alla cultura preislamica: la ritroviamo nei filosofi pagani siriaci di Harrān, come eredità della cultura ellenistica.

Più in generale, però, l’atteggiamento maggiormente diffuso tra i musulmani indiani verso gli aspetti più idolatri dell’induismo è per lo più limitato e chiuso. Se la cultura mistica islamica è stata in generale abbastanza ricettiva anche rispetto a forme pagane di culture non musulmane, arrivando in alcuni casi a considerare l’idolatria come una trasgressione delle norme religiose che poteva portare ad una sincera spiritualità, nel caso dei musulmani indiani l’idolatria diventa il limite oltre il quale non è possibile accettare le pratiche “dell’altro”. Questa differenza è spiegabile con una maggiore esposizione dei musulmani indiani ad un tipo di religiosità politeista, con una conseguente maggiore percezione del rischio. Questo atteggiamento portava però ad escludere dai rapporti di reciprocità una grande fetta della popolazione indiana.

Al contempo, il modo in cui è nata e cresciuta la relazione tra l’islam e l’induismo costituisce un esempio chiaro e mostra come l’approccio musulmano alle religioni sia per lo più legato ad un’esperienza storicamente contestualizzata, piuttosto che ad una visione universale indipendente da qualsiasi contingenza reale.

[1] Da širk, ossia politeismo, associazionismo.

[2] C. W. Ernst, The limits of Universalism in Islamic Thought, 2

[3] Si tratta di una pratica che attraverso degli esercizi fisici, la respirazione e la meditazione si propone di raggiungere il controllo della mente e la fusione con l’assoluto.

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