Napoletani di fatto

di Daniele Maffione  (  da Napoli )  Operatore Sociale.

 

Sotto il tappeto, c’è la polvere. Se venite e Napoli, dimenticate guide e smartphone. Ancor di più, non temete di “morire” alla vostra partenza, come cita il celeberrimo proverbio. Passeggiate, camminate, perdetevi nei vicoli. Ed aprite gli occhi. Non per paura, ma per capire.

Napoli, com’è noto, è la terza città d’Italia. Città popolosa, con circa un milione di abitanti dichiarati ed un flusso giornaliero ancor più grande, che raggiunge i tre milioni, se si considera l’esercito di pendolari che ogni giorno, muovendosi dalla provincia, raggiunge la città coi mezzi più disparati e precari.

Napoli.

Città dove tutto ed il suo contrario si congiungono in un’orgia di colori, odori, rumori, frenesia.

Napoli città-cartolina, che ha avuto un boom turistico senza precedenti negli ultimi anni e che somma ai numeri precedenti cifre astronomiche, se si considerano i cinque milioni di turisti sbarcati all’aeroporto di Capodichino in tutto il 2016 o il milione e mezzo di “crocieranti” approdati al porto negli ultimi due anni.

Una cartolina che ha il pregio di far riscoprire le nudità più celebri della bella Parthenope, che vanitosa si mostra agli occhi dei più: piazza del Plebiscito; il palazzo reale, sul cui frontone sono rappresentate otto dinastie che hanno imposto il proprio dominio per oltre un millennio; Spaccanapoli; la Galleria Umberto I, ecc. Una cartolina che porta respiro per piccole e medie attività commerciali, riconvertite in fretta e furia ad uso e consumo dei voraci turisti che ricercano la sfogliatella, la pizza, il babà, il mandolino. Una cartolina che fa ingrassare le tasche di albergatori, ristoratori, agenzie turistiche, compagnie di trasporto privato a discapito del lavoro in nero, in deciso aumento, e di percorsi più ragionati che consentano di vedere ciò che il consumismo cela.

Napoli è tutta qui ? No !

Stanca ai napoletani la narrazione della città “low cost”, mordi e fuggi, arraffa e scappa. L’amministrazione De Magistris da anni sta lavorando per fare in modo che le frotte di turisti non fuggano verso mete auliche, ma deturpate dal consumismo di massa e dall’incuria dei governi. Mete come la Pompei disseppellita dalle ceneri del Vesuvio o come le meravigliose costiere sorrentine ed amalfitane, su cui è proliferato il cemento con viste di lusso a 900 euro a notte.

Si sta puntando sul trattenere i visitatori in città, sul moltiplicare gli eventi, sul costruire un modello equilibrato che punti alla valorizzazione dell’immenso patrimonio artistico, storico, culturale del territorio –in superficie e nel sottosuolo- integrandolo con l’offerta dei generosi prodotti enogastronomici locali e la riscoperta di quartieri popolari dimenticati, ma dall’antico lignaggio e dal ricchissimo interesse storico.

E Gomorra ? Spara, ma non uccide il cambiamento.

Città complessa, problemi complessi, che meritano ampia trattazione in altra sede. Anche qui, la lotta alla Camorra c’è. Più che lo Stato, è il Comune che cerca di essere presente ed attivo nel contrasto della criminalità organizzata. Io non sono d’accordo con quanto scrive Roberto Saviano, che propone una Napoli “terra di nessuno, ostaggio dei clan della camorra”. Qui la lotta si conduce metro per metro, giorno per giorno. E bisogna stare sul campo, non alla tastiera di un pc per rendersene conto.

Bisogna perdersi per Napoli per comprenderlo.

Perché chiunque passeggi per la città, e non sia distratto da altro, può accorgersi di un altro fenomeno, in perfetta controtendenza rispetto a ciò che avviene in altri angoli del Belpaese.

A Napoli si possono osservare i monumenti e le persone. E decine, centinaia, migliaia di quelle persone hanno la pelle di un altro colore. Non il candido biancore dei popoli scandinavi, non il paffuto rossore dei popoli anglosassoni, non la virgulta marzialità dell’accento teutonico. Quelli sono di passaggio. Questi altri sono stanziali e hanno la pelle nera, olivastra, gialla, scura, creola, meticcia. Molti vengono dall’Est. Moltissimi altri provengono dall’Africa, dall’Asia, persino dall’America latina.

Non sorprende trovare fra questi “Napoletani di fatto” molti attivisti politici e sindacali.

E, che dir si voglia, non sorprende trovare fra queste strade anche “polentoni” che si sono innamorati di questa città e hanno scelto di viverci. Forse, perché il detto: “Vedi Napoli e poi, muori!” non è un anatema, ma l’esasperazione di un concetto alla base di questo posto: l’accoglienza.

In Spagna si utilizza un termine per descrivere tutto ciò: mestizaje. E in questa sfera frenetica di meticciato, sempre se non osservi i monumenti e lo smartphone, ti rendi conto che pullano esercizi commerciali con nomi esotici, ambulanti che vendono cover di telefonini, badanti che parlano in lingue derivanti dal sanscrito e che, ogni mattina, raggiungono i quartieri borghesi della città per lavorarvi come badanti o domestici, ritornando la sera a casa dalle proprie famiglie nei quartieri popolari.

I quartieri popolari, a proposito.

Quelli dove a qualcuno piacerebbe veder divisi i “bianchi” dagli “immigrati”, presentati ogni sera al tg come terroristi, ruba-lavoro, stupratori. Racconti di un altro paese o di un altro mondo, non so. Ma racconti da cui molti napoletani, un po’ perché cittadini di un mare abituato-nei-secoli al contatto con gli stranieri, un po’ per una certa congenita diffidenza verso uno Stato da cui si sentono messi da parte, si sentono distanti.

Se venite a Napoli, perdendovi nel dedalo di vicoli del centro storico, vi potrebbe capitare di vedere aprirsi la porta di basso, da cui escono padre, madre e figlia. Tutti e tre srilankesi.

Il che non vuol dire che non ci sia una diffidenza anche verso gli immigrati. Anzi, anche qui c’è chi cerca operosamente di seminare veleno ed innaffiare di benzina il fuoco della rabbia popolare, stratificatasi in generazioni di disoccupati e sottoproletari. Ma è facile camminare per strada e trovare cortei di ragazzi africani che rivendicano il permesso di soggiorno, assemblee cittadine in cui agli attivisti dei centri sociali si mischiano gli studenti dei corsi popolari d’italiano L2, oppure trovare stranieri ed indigeni comunicare fra loro in quella lingua universale di gesti e parole, che qui non è l’inglese, ma il napoletano.

Napoli è patria dei senza patria. Lo ha più volte ribadito anche il Sindaco, che ha promosso con la propria amministrazione una serie di eventi tesi a superare il concetto di “integrazione”, che puzza un po’ di gergo post-coloniale, ed a favorire invece il tema dei “diritti”, intesi come rilascio di documenti, lavoro, servizi sociali, casa (per tutti, nativi e stranieri). Tema cui si somma il concetto di “partecipazione” con l’istituzione di tavoli istituzionali aperti a tutte le comunità immigrate presenti in città.

Certo. Poi si fanno i conti col Decreto Minniti-Orlando sull’immigrazione. E ci ritroviamo un pezzo della città che si rivolta contro le “delazioni” sugli immigrati ed i “daspo urbani” contro i poveri. Si diffonde la notizia dell’omicidio di Miang Nagatte a Roma e trovi il giorno dopo un presidio sotto la Prefettura con centinaia di immigrati ed attivisti sociali. Alcuni di loro gridano: “freedom”! Uno prende il megafono e dice: “Basta con le guerre! I bianchi hanno portato la morte in Africa per prendere le nostre risorse. Noi scappiamo e quando siamo qui ci uccidete ancora?”. Come si fa a dargli torto?

A Napoli, c’è polvere sotto il tappeto. Un tappeto steso come una tomba da chi vorrebbe soffocare un grido di dignità che si sta levando da questa terra. Una polvere di stelle che brilla e risplende nella sua orgogliosa voglia di cambiare il presente.

Se venite a Napoli, mangiate le leccornie e visitate i monumenti, ma camminate e guardate anche le persone.

 

Commenta per primo

Lascia un commento

L'indirizzo email non sarà pubblicato.


*