Quando una nera va in Africa a fare volontariato

di Shata Diallo.

Cosa accade quando una nera va in Africa a fare volontariato?

Era questa la domanda che mi ponevo prima di partire ed alla quale non riuscivo a dare risposta. Ad oggi, tornata, ho trovato più risposte di quante ne stessi cercando.

Sono partita per l’isola di Zanzibar con l’obiettivo di supportare mille bambini e le loro maestre. Questi bambini frequentano i dieci asili che Gocce d’Amore Onlus ha costruito in questi anni.

Sono esperienze forti, per cui si parte sempre con un’intenzione umanitaria ed una personale chiave egoistica: “voglio aiutare qualcuno che ne ha bisogno”, “voglio apprezzare di più la mia vita”, “voglio mettermi alla prova”. Bando dall’etimologia del termine “egoista”, in questo caso intendo la volontà personale ed intrinseca che ci spinge a fare qualcosa ed a portare a casa un bagaglio di esperienze. Insomma, l’intenzione pro-sociale è sempre connessa con un obiettivo personale.

La mia chiave egoistica, la mia volontà, la mia intenzione pro-sociale era “voglio trovare me stessa ed entrare in contatto con quella metà della mia cultura che non ho mai conosciuto bene; cosa accade quando una nera va in africa a fare volontariato?”.

Non racconterò tutta la mia esperienza ma cosa, da queste domande, sono riuscita a capire, con il mio occhio umano ed il mio interesse per la psicologia sociale.

Mi occupo da anni di pregiudizio interetnico e nonostante i miei studi approfonditi sono stata costretta a disputare molte supposizioni che, da vera occidentale, avevo coltivato per una vita intera.

  1. “Se entro in uno spazio culturale diverso dal mio, o mi adatto alle loro abitudini, o non sono accettata”.

In fondo, arrivata a Zanzibar ed entrata nella prima scuola, mi sono sentita un po’ una colonizzatrice anche io : entro nell’asilo con la fretta che contraddistingue la mia cultura, consegno i biscotti ai bambini, li abbraccio, faccio il mio dovere, e passo dopo passo svolgo a scaletta tutti i compiti che mi sono stati affidati.

In brevissimo tempo mi sono accorta come io stessa, con la sensibilità che mi contraddistingue, mi ero fatta domande e mi ero posta dubbi che una cultura diversa dalla mia non si pone.

Nella mia cultura infatti ognuno ha il proprio spazio vitale confinato che non deve mai essere oltrepassato, e quando questo accade, l’altro è considerato un approfittatore, usurpatore, irrispettoso.

Nella mia cultura, quando arriva qualcuno di nuovo, il primo messaggio che viene velatamente inviato è “o ti adatti a noi, o vai via”.

Nella mia cultura, chi ha il diritto di superare il confine è colui a cui, dall’alto della nostra presunzione di controllo, è stato dato il permesso di farlo.

Lentamente ho scoperto che, con la mia cultura intellettuale, mi ero avvicinata ad un’altra cultura con la presunzione di sapere già cosa avrebbero pensato di me (perché sicuramente la pensavano come me) e di arrendermi dichiarandomi nel cuore una “colonizzatrice” prima che qualcuno potesse accusarmi.

Ovunque si vada, qualunque sia il luogo fisico o il pensiero astratto, è sempre importante portare un piccolo pezzetto di sé, della propria storia e della propria esperienza per non perdersi e perché questo possa essere non solo bagaglio di conoscenze per gli altri, ma dono di riconoscimento per l’accoglienza dell’estraneo che ci permette di entrare nel suo mondo.

  1. Vado a fare volontariato in Tanzania perché lì le persone hanno assolutamente bisogno del nostro aiuto”.

Il mio pensiero si è rafforzato non solo all’arrivo sul posto, ma anche all’ingresso nei primi asili. Dovendo controllare lo sviluppo dei lavori, ho ispezionato gli spazi comuni, i bagni e le cucine. Ricordo i primi minuti di difficoltà, nella cucina del primo asilo con in mano il modulo di valutazione. “Secondo quale criterio lo considero igienico e pulito?” Dopo un attimo è arrivato il momento della merenda. I bambini in fila indiana inserivano in delle tazzine una strana sostanza semi-liquida. Una volta finita, sciacquavano i contenitori in acqua bollita e poi facevano la stessa fila con il bicchiere disinfettato per bere un po’ d’acqua.

Cosa importa se l’acqua che viene fatta bollire è la stessa da tempo ? E se la cucina consiste in una stanza con della legna ed un pentolone dal contenuto biancastro ed indefinito?

Questa volta, sono entrata in quella cucina con la presunzione di chi sa come giudicare e di chi sa cosa va bene e cosa non va.

Molto spesso siamo convinti che chi vive nel così chiamato “Terzo Mondo” abbia assolutamente bisogno del nostro aiuto. Grandi organizzazioni europee costruiscono in questi paesi pannelli solari in villaggi nei quali non c’è elettricità.

In uno dei miei tanti momenti di riflessione mi sono chiesta: “E se invece loro non avessero tutto questo bisogno di noi? Noi abbiamo bisogno di loro per fare grandi cose e poterle raccontare, a volte per pulirci la coscienza, ma sono loro ad avere bisogno di noi o noi ad avere bisogno che loro diventino come noi?”

Questa domanda, al momento, è ancora in disputa. La piccola risposta che mi aiuta a vivere con serenità è che il mio diritto umano è quello di proporre a casa altrui quello che prima ho chiamato un piccolo pezzetto di me, il mio aiuto, come dono, e lasciare all’altro il diritto di scegliere.

  1. Cosa accade quando una nera va in Africa a fare volontariato?

Questa, alla fine, era la grandissima domanda con la quale sono partita.

Durante il lungo viaggio di andata fantasticavo sul fatto che mi avrebbero potuta riconoscere come una di loro o al contrario allontanarmi proprio perché, simile a loro, ero “dall’altra parte”.

In dieci giorni nessuno si è mai domandato come mai io avessi un colore di pelle diverso dagli altri volontari o perché parlassi francese, a tal punto che in un asilo, la classe dei più grandi (6-8 anni), scherzando e ballando, mi ha chiamata “muzungu” (in swhaili è il termine dispregiativo usato per dire bianco). Sono stata freddata, immobile li ascoltavo, stupita ed anche un po’ offesa. I miei studi mi insegnano che dopo i 3 anni non esiste bambino che non sia soggetto a pregiudizi di etnia e quelle erano parole dette con superficialità, la stessa che utilizzavano i bambini italiani della stessa età quando ero piccola.

I miei pensieri, in quell’istante, sono stati molti.

È vero si, non sono proprio nera, sono mulatta, ma alla fine in Tanzania le persone non sono nere come in Nord Africa, non ero tanto diversa da loro. In un attimo ho realizzato che avevo davanti cinquanta bambini con i tratti somatici così diversi tra loro e per la prima volta nella mia vita mi sono accorta che l’Africa è davvero enorme e la Costa d’Avorio (patria di mio padre) è davvero lontanissima dalla Tanzania. Insomma, non mi avrebbero mai potuta scambiare per una di loro, come io non scambierei una svedese per italiana.

Permalosa come sono ed offesa da quelle parole, sempre guardandoli, ho pensato che con tutte le battaglie contro il pregiudizio interetnico non meritavo di essere presa in giro proprio da coloro i quali io volevo aiutare. Ma aspetta, loro mi avevano mai chiesto aiuto? Avevano davvero bisogno di una battaglia contro il pregiudizio interetnico, o quella era una battaglia di cui avevo bisogno io e la mia comunità occidentale? Si, io, “muzungu” dentro, occidentale fino al midollo, italiana poco patriottica ma con l’accento così romano da far impressione, è quello che sono, ed il colore della pelle ed i pensieri non importano. Non importano più per trovare me stessa.

Insomma, “nera” non vuol dire niente, ed “Africa” tanto meno, questo è ciò che mi sono risposta.

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