Enea e Roma attraverso l’Egitto e il Canada

di Antonio Luzi    (   da Roma )

Sabato 6 maggio, al Teatro Argentina di Roma, ho visto Il viaggio di Enea una rielaborazione dell’Eneide scritta da un drammaturgo canadese – egiziano , Olivier Kemeid nato in Québec da una famiglia immigrata in Canada dall’Egitto.

A parte la bellezza e la forza della scrittura di una opera che mi ha coinvolto come non mai in questi anni, facendomi provare sentimenti forti, ciò che mi ha incuriosito è scoprire come uno scrittore canadese avesse deciso di rappresentare il viaggio di Enea, l’eroe troiano che, nella mitologia romana, dà origine a Roma. Kemeid, come lui stesso ha detto in una intervista, ha preso spunto dalla storia della sua famiglia, una famiglia che si era spostata, nei primi del novecento, dal Libano in Egitto, una famiglia di religione crstianocopta, che allo scoppiare della rivoluzione di Nasser, nel 1952, decise di scappare prima che iniziassero le persecuzioni.  Dapprima raggiunsero Alessandria e lì si imbarcarono su una nave che li portò a Napoli, per poi ripartire e raggiungere Marsiglia andando poi a Le Havre e, dopo tre mesi di viaggio, arrivare finalmente nel Québec.

Kemeid racconta di aver studiato a scuola la Divina Commedia e di essere rimasto affascinato dalla figura di Virgilio. Ha poi letto l’Eneide e nel leggerla è rimasto colpito dalla corrispondenza tra le vicende del poema e la sua famiglia. Ha visto in Enea il suo nonno, in Ascanio, suo padre, e gli sono tornati in mente i racconti fatti dal nonno della drammatica avventura della sua famiglia, l’ostilità del mare, del deserto e dei vari luoghi in cui erano stati accolti come migranti. La sua immaginazione è stata poi colpita dalle storie degli sbarchi a Lampedusa, e si è ricordato quando da bambino era stato in visita a Napoli e suo nonno sulla spiaggia gli aveva detto “Guarda il Mar Mediterraneo, la grande madre della nostra cultura”.

Ne è nata una opera teatrale potente e coinvolgente, che inizia con la festa che i troiani fanno la sera in cui i greci, apparentemente se ne sono andati lasciando un regalo ai troiani, il cavallo di Troia, e prosegue con il momento in cui i Troiani si svegliano, quando i greci entrano in città e massacrano una intera popolazione, una notte in cui Enea perde la moglie, Creusa e poi decide di fuggire portando sulle spalle il padre Anchise e tenendo in braccio il figlioletto Anchise.

Un opera, ripeto potente e coinvolgente, e se ne doveste avere la possibilità, cercatela e andate a vederla. L’adattamento ai tempi nostri è perfettamente riuscito, mantenendo però tutta la forza del racconto dell’Eneide e soprattutto di un eroe, come Enea, molto diverso già allora dal prototipo dell’eroe greco prima e romano poi. Un eroe fragile ed umano, un eroe guidato dalla Pietas.

La domenica dopo invece, sono andato a fare una visita guidata alla Villa dei Quintili sulla via Appia.

A parte della bellezza dei ruderi, incastonati nel parco dell’Appia che è di per se uno spettacolo che vale la pena di essere visto, la visita mi ha fatto venire in mente che Commodo, l’imperatore che nel 182 dopo Cristo, mandò a morte i fratelli Quintili, appropriandosi della loro proprietà, era il figlio di Marco Aurelio.

Ho collegata la visita all’opera teatrale del giorno prima pensando che chi aveva chiesto a Virgilio di scrivere una opera che celebrasse Roma, facendola nascere da Enea, era stato l’imperatore Ottaviano, quello della famosa “pax augustea”, mentre Commodo era figlio di Marco Aurelio, considerato uno dei quattro imperatori “buoni”, che insieme a Traiano, Adriano e Antonino Pio, definirono quella che alcuni importanti storici hanno chiamato l’Età dell’Equilibrio”, che è un periodo in cui si portano a maturazione i frutti positivi della politica di dominazione romana: in particolare, la pace mediterranea, l’unificazione dello spazio monetario, la diffusione del sistema legislativo e giudiziario romano e delle forme contrattuali proprie del diritto romano e la diffusione del modello di vita urbano anche nella periferia dell’impero. Al contempo, è questa certamente l’età in cui cessarono del tutto gli effetti drammatici e negativi della conquista romana, come l’economia di rapina, le vessazioni tributarie che i provinciali avevano subito da parte dei pubblicani, le violenze della conquista e del controllo armato del territorio. Un generale miglioramento dei fattori di produzione e commercializzazione e in ultima analisi una crescita economica su scala globale.

( http://autori.fanpage.it/i-buoni-imperatori-di-roma-traiano-adriano-antonino-pio-e-marco-aurelio/ )

Un tempo in cui Roma divenne ancora più grande, non tanto per la sua potenza bellica ma anche per la sua politica di inclusione in cui masse enormi di immigrati era divenute parte integrante del sistema romano.

In questi  nostri tempi  invece, in cui gli Stati dell’Occidente, ed in particolare l’Europa, si sono dimostrati incapaci di gestire i flussi migratori con politiche diverse da quelle dettate dall’emergenza e dalla paura, spesso ci dimentichiamo che il fenomeno migratorio non è un dramma esclusivo del mondo contemporaneo ma è, al contrario, un fenomeno con cui tutte le civiltà hanno dovuto prima o poi fare i conti.

Anche i Romani, come accade oggi per l’Europa, dovettero fronteggiare il problema dell’immigrazione, e per secoli lo gestirono con risultati molto migliori dei nostri, traendone linfa vitale per la sopravvivenza del loro immenso Impero. Fino a quando, in conseguenza della gigantesca crisi politica, anche le organizzatissime strutture preposte al suo controllo crollarono, inaugurando quel periodo storico che a scuola ci hanno insegnato a chiamare invasioni barbariche. Certo le differenze tra Roma e noi sono grandi e tante, ma se c’è un elemento che dovrebbe insegnarci qualcosa è il fatto che ci fosse un “governo centrale”, quello romano, che stabiliva regole del gioco uguali per tutti, mentre oggi l’Europa è semplicemente un aggregato casuale di vari interessi “privati” che non riesce a trovare, forse nemmeno a cercare, soluzioni comuni. Non voglio certo proporre il sistema romano che si basava sulla brutalità e l’autoritarismo (tu entri e tu no), il quale a ben guardare, oltre alla spietata organizzazione con cui si selezionava chi fare entrare e chi lasciare fuori, aveva anche e soprattutto un disegno lungimirante, volto alla piena assimilazione dei nuovi arrivati nel contesto romano. Una volta entrati, gli immigrati iniziavano un percorso di integrazione che nel giro di una o due generazioni li portava a sentirsi a tutti gli effetti parte dell’impero.  Ristudiando la storia romana si scopre che non era inconsueto che cittadini romani di chiare origini barbariche, occupassero posizioni di rilievo nell’esercito o nell’amministrazione pubblica, o che qualche imperatore fosse “non romano come nascita.  Fra gli esempi ricordiamo Stilicone, generale dipinto dai libri di scuola come uno degli ultimi difensori dell’impero, il cui padre era nientemeno che un Vandalo. D’altronde, nell’Urbe non mancarono nemmeno imperatori di origini barbare.  Avete mai visto un primo ministro di origini africane nella civilissima Gran Bretagna ? Se avete voglia di approfondire un l’argomento ecco un link :  http://www.lavocedinewyork.com/people/2015/10/08/immigrazione-la-grande-lezione-di-roma-antica/ e consiglio di leggere un saggio, di cui è autore con altri il Professor Alessandro  Barbero, intitolato  “Barbari. Immigrati, profughi, deportati nell’impero romano” (Laterza).

 

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