I have a nightmare

di Tana Anglana.

Ho un incubo ricorrente. Sempre lo stesso. Scappo da orde di zombie che mi vogliono divorare. Individui singolarmente resi fragili dalla decomposizione, ma feroci e implacabili quando si muovono con la forza della massa. Sguardo vuoto che sovrasta fauci spalancate. Zombie da manuale alla George Romero, per intenderci.

Questo incubo orrorifico si fa sempre più frequente in fase di campagna elettorale.

Interpretazione banalmente identificabile: ho il terrore della massa acefala evocata dalle urla elettorali, quella che – una volta scatenata – odia, discrimina, mette all’angolo, insulta e…spara.

Abbiamo vissuto una campagna elettorale -come di consueto – poco esaltante. Deragliata soprattutto sulla questione migratoria, presa in ostaggio dalle percezioni non informate sul fenomeno e priva sia di un respiro ampio di visione politica sul tema specifico, che di ispirazione per il futuro del paese.  E’ stato inevitabile attendere l’alba del 5 Marzo con una certa preoccupazione: quando la politica non indica la strada ma si limita ad inseguire il consenso, si auto-infligge una breve data di scadenza, un governo facilmente deperibile e, di conseguenza, un elettorato intossicato.

La chiamano era post-ideologica, per me non è altro che opportunismo politico.

Durante il periodo elettorale ho cercato di capire quali siano i programmi di governo per la Cooperazione allo sviluppo dei vari schieramenti politici.

Nessuna sorpresa nel trovare il tema legato a doppio filo con quello delle Migrazioni: il legame c’è e dovrebbe essere valorizzato. Peccato che il collegamento sia spesso sbilanciato verso un uso della cooperazione come strumento di contenimento dei flussi, come barriera alla mobilità umana targata Corpo Diplomatico. Perché questa è l’impostazione che vende e che porterà i miei zombie in cabina elettorale.

Eppure, è passato solo un mese dalla Conferenza Nazionale sulla Cooperazione allo Sviluppo, l’evento che ha riunito tutto il sistema paese attorno ai temi fondamentali della Cooperazione: la sostenibilità dei nostri modelli economico-sociali, la coerenza tra le politiche, Il coinvolgimento dei giovani, l’educazione alla cittadinanza globale e, anche, le migrazioni. Il respiro ampio della visione della cooperazione come un’opportunità di crescita per tutti che ha accompagnato questo evento, sembra essersi spento con l’urgenza della ricerca di consenso, trasversale a tutti gli schieramenti.

Nel “Manifesto per cambiare il futuro”, frutto della due giorni di conferenza, c’è un Paese, il nostro, che trova l’ispirazione di autodeterminarsi come aperto al mondo e che sente la responsabilità di costruire un’Italia migliore. La preziosa “visione”, che ho sentito totalmente assente nell’esposizione elettorale, è invece rintracciabile nel lavoro perfettibile e criticabile a volte ma sinceramente votato al miglioramento, come quello svolto negli ultimi anni dalla Cooperazione Italiana. Una politica (nel senso più alto) fatta da persone genuinamente coinvolte e partecipata in maniera trasversale, che si è messa in ascolto e che ha prodotto una sintesi di valore, orientata da un’idea di fondo: quella per cui la Cooperazione che pone la giustizia sociale e i diritti al centro dello sviluppo può essere un fattore di crescita economica, sociale e culturale per il nostro Paese. Badate bene, per il nostro Paese e non per mettere freno alla mobilità umana. La differenza tra una la volontà di fornire con fiducia nutrimento a una nazione che vuole evolvere e chi, invece, getta brandelli di carne a una marea di zombie che vanno semplicemente tenuti a bada.

“Un’Italia aperta al mondo che prepara un futuro più giusto è una grande opportunità, questa Italia migliore è una nostra responsabilità̀.” (La Cooperazione Italiana: Manifesto per cambiare il futuro)

Recentemente si è svolta l’ultima riunione del Consiglio Nazionale per la Cooperazione allo Sviluppo prima della chiamata alle urne. Abbiamo approvato il Documento triennale di Programmazione e di Indirizzo 2017-2019 con soddisfazione e speranza, ma il clima era già di malinconia e preoccupazione. Preoccupazione perché, qualunque sia il nuovo assetto governativo, il rischio è quello di interrompere la continuità di un valido lavoro in nome dell’urgenza di segnare un passo diverso, lanciare segnali di rottura a prescindere, rappresentarsi come novità a tutti i costi, a discapito della sopravvivenza di quelle nicchie di lungimiranza strategica così rare e vitali per il nostro futuro.

L’alba di Lunedì scorso ci ha richiamato al confronto con un’inedita incertezza, ma che – proprio per questo – forse ci lascia ancora spazio per stabilire la misura di quanto saremo disposti a dare al nostro Paese la possibilità di sottrarsi al richiamo di un basso istinto di chiusura, odio sociale e bieco egoismo nazionalista. Dipende da tutti noi.

Auguriamoci con tutto il cuore che non sia stata un’alba dei morti viventi.

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