Madre e Mediatrice

di Amira Chaouch ( Castelvetrano-Trapani ).

La Mediatrice culturale Naziha Tahar, di origine tunisine, vive in Italia da quasi 30 anni, impegnata nel territorio trapanese nel settore della immigrazione, dopo anni di esperienza lavorativa ed anni di volontariato ed associazionismo ci parla della sua esperienza con gli immigrati provenienti da vari paesi dell’Africa e dell’Asia.

Ha iniziato il suo percorso lavorativo in Sicilia a Serraino Vulpitta (Trapani ), nel Centro di prima accoglienza per immigrati clandestini, dove c’erano più di 50 ospiti provenienti da diversi parti dell’Africa e dell’Est Europa. Qui aveva intrapreso la sua carriera di mediatrice culturale, parlando la lingua araba e francese. All’inizio non era facile lavorare con persone provenienti da diverse culture, religioni e tradizioni, ma piano piano aveva imparato ad integrarsi e diventare parte della grande famiglia. In questo centro le sorprese non mancavano, come non mancavano le storie da vedere o farsi raccontare.

Naziha in tre anni di lavoro in questo centro con diverse realtà, ti ricordi di qualche esperienza significativa o che ti è rimasta impressa nella mente? Ci potresti raccontare qualche episodio?

  • Si più di una, non potrò mai dimenticarmi della storia di un giovane marocchino, che dopo aver passato circa 5 anni di carcere l’avevano spostato nel centro in attesa del rimpatrio. Lui rifiutava questa decisione presa nei suoi confronti ogni giorno combinava un guaio, ogni giorno creava problemi, finché un giorno si svegliò con l’idea di tagliarsi le vene minacciando tutti di suicidarsi. Sapendo che aveva l’ADIS nessuno si era avvicinato a lui perché tutti avevano paura, in attesa dell’ambulanza e delle forze dell’ordine. Nel frattempo il ragazzo spalmava il suo sangue ovunque sulle mura, sulle porte ed ad un certo punto aveva preso come ostaggio un Ufficiale dei Carabinieri. Lì per lì mi sono sentita in dovere di parlare con il ragazzo ed avvicinarmi a lui, anche se gli altri me lo avevano impedito, io mi ero avvicinata a lui per calmarlo e parlargli della sua situazione e di quello che sta facendo. Il ragazzo non ci credeva che ero dentro la stanza con lui e che gli parlavo senza avere nulla in mano e nessuna protezione, aveva subito lasciato l’ufficiale e si era messo a piangere. Era lui che mi allontanava per non infettarmi e farmi del male, piangeva raccontandomi le motivazioni che lo avevano spinto a fare ciò ed il motivo per il quale non voleva essere rimpatriato, e così piano piano avevano da solo accettato di andare all’ospedale chiedendo espressamente di essere accompagnato da me. Dopo le cure era stato rimpatriato, ma prima della sua partenza aveva voluto ringraziarmi per il coraggio e per avergli dato fiducia.
  • Ci sono altre storie che mi sono rimaste impresse come quella di un anziano slavo, tutti avevano paura di lui perché aveva fatto un omicidio. Ma io nonostante quello che aveva fatto non me la sentivo di giudicarlo, mi parlava sempre della sua vita, della guerra e degli anni di vita in Italia, per lui ero diventata figlia, e prima del suo rimpatrio mi aveva fatto un bellissimo ritratto che tutt’ora tengo appeso nel salotto.

 

Hai solo lavorato in questo tipo di centro o sei passata anche in altri centri?

  • Ho lavorato anche nei SPRAR, CAS ed anche comunità di minori stranieri non accompagnati.

 

In quale tipo di centro ti sei trovata meglio o hai lavorato di più?

  • Ho sempre lavorato bene in tutti i tipi di centri, ma l’esperienza lavorativa nei CAS la considero migliore per me e per la mia carriera.

 

Qual è la differenza tra il lavoro con gli immigrati minori e quelli maggiori?

Sinceramente non c’è una grande differenza tra i due, con i maggiorenni una volta spiegata la procedura della legge, i loro diritti e doveri sono totalmente liberi basta che rispettano il centro ed il posto che gli accoglie. Mentre il minorenne deve essere seguito in tutto e per tutto, a scuola, all’entrata ed uscita, stare attenti alle persone che frequentano fuori, insomma deve essere accompagnato in ogni momento della sua vita e convivenza nel nuovo paese, è come essere un suo tutor, anche se preferisco il termine “madre” in ogni caso.

Che cosa ti hanno insegnato e regalato questi anni di lavoro?

– In questo lavoro ho imparato la pazienza ed il coraggio, il sopporto di tutte le difficoltà, perché sentire le loro storie, e le varie difficoltà che hanno attraversato nonché vissuto, mi da il coraggio di affrontare tutte le difficoltà con speranza e sorriso. Inoltre ho imparato tante cose dalle loro culture, tradizioni, ho anche imparato a cucinare alcuni piatti tipici di vari paesi dell’Africa.

Prima avevi utilizzato il termine “madre”, cosa significa per te ciò e che cosa significa vivere con loro le loro storie ed adolescenza ed essere chiamata “mamma”?

Per molti ero diventata sorella, per altri invece l’amica, per la maggioranza sono diventata “Mama Naziha”. Mi sento fortunata ad essere madre di tanti giovani, e mi sento fortunata per essere chiamata così, perché è difficile dare questa nomina a qualcuno che non si conosce o che non è della nostra famiglia, per questo mi sento fortunata, sono riuscita a dare loro l’amore di una madre e l’affetto di una sorella ed il sostegno di un’amica. Tuttora, anche con distanza di tempo, quando m’incontro con qualcuno di loro anche per puro caso, sento il loro amore verso di me, gli brillano gli occhi e con un sorriso largo stampato sulla faccia iniziano a gridare Mama Mama, tutto questo perché trovano in me la figura materna e quella più vicina alle loro culture e forse anche religione. Vivere con loro significa sentire il loro racconto, rivivere il viaggio ed il rischio che hanno vissuto nel mare, significa rivivere il viaggio che hanno affrontato per raggiungere le nostre coste ed il maltrattamento che hanno ricevuto. Tante volte durante  il loro racconto nascondo le mie lacrime ed il mio dolore, e provo tra un sorriso, un abbraccio, qualche parole dolci di farli sentire in buone mani e che non sono soli, che qui il futuro sarà diverso, e che i loro sogni so possono realizzare. Ovviamente vivere con loro non significa solo questo ma anche essere presente nella loro adolescenza, quando stanno male, giocare con loro, festeggiare le varie feste e compleanni con loro, insomma una seconda famiglia.

Io Amira Chaouch, figlia di Naziha, oggi Mediatrice Socio-Culturale anch’io, ho sempre detto una frase durante i miei viaggi, soprattutto quelli in Medio Oriente ed in Africa:

Nessuno ha perso la sua mamma, e per tutti quelli a cui manca la madre, e tutti quelli che non hanno avuto la fortuna di conoscere la loro mamma, sappiate che la mia mamma è la vostra mamma e che io vi sono sorella”.

L’amore è un sentimento favoloso e quello di una madre è unico. Grazie Mamma Naziha.

 

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