Multicultura e Libertà

di Manel Ben Ameur  (da Bolzano)

Mi chiamo Manel e sono di origine italo-tunisina.

Spesso, durante il corso della mia vita, mi sono trovata di fronte ad una delle domande più assillanti che caratterizza la quotidianità dei figli degli emigrati e nel mio caso specifico è stata: “Sono tunisina o sono italiana? o meglio: posso dire di essere più italiana o più tunisina?”.  Questa domanda trova la sua ragion d’essere nelle stesse dinamiche relazionali che il figlio/a di un emigrato/a si trova a vivere e a creare nelle diverse dimensioni della vita sociale, dai rapporti di amicizia a quelli lavorativi ecc. È una domanda che parte dall’intimità dell’individuo preso in considerazione, ma trova giustificazione nelle diverse prospettive che la contemporaneità gli mette a disposizione per potersi autodefinire, sia nei confronti di sé stesso che nei confronti degli altri. Insomma volente o nolente la questione della propria identità culturale è uno step che ogni figlio/a di emigrato/a dovrà prima o poi affrontare per trovare il proprio spazio nel mondo; è fisiologico.

Trovare risposta a questo quesito non è una delle opere più facili da realizzare, e oggi posso dire che nel momento in cui una ragazza o un ragazzo di seconda generazione in Italia (di quarta in Francia e così via) decide di affrontare questa tematica, sceglie inoltre, forse inconsciamente, di iniziare un “rito di iniziazione” che plasmerà la sua soggettività e che caratterizzerà la sua stessa percezione del mondo.

Il mio “rito di iniziazione” ebbe inizio a diciotto anni, forse perché cominciavo sentirmi adulta. Passai ore a scuola a sentire la professoressa di diritto ripetere fino all’esaurimento: “Ragazzi quando avrete diciotto anni acquisirete la capacità di intendere di volere, diventerete adulti e i vostri comportamenti determineranno positivamente o negativamente il benessere della vita collettiva ed individuale”; ma come sarei potuta esserlo, se ancora non sapevo nemmeno quale fosse la mia identità: italiana o tunisina?  Inoltre prima dei diciotto anni non avevo ancora acquisito la cittadinanza italiana.

La situazione si complicava al primo livello di ricerca. Paradossalmente era la mia stessa persona a non facilitarmi il lavoro, e questo perché la domanda me la ponevo nelle due diverse lingue in base alle diverse circostanze, italiano o darija (dialetto tunisino della lingua araba caratterizzato dalla presenza di termini di provenienza francese, italiana, berbera e latina e che ha avuto sviluppo indipendente).

Il secondo livello di complicazione era rappresentato da come gli altri mi vedevano. Mio padre mi ha cresciuto chiedendomi di ricordare sempre la mia origine tunisina, ma quando andavo in Tunisia era la mia stessa famiglia a ricordarmi che in realtà non lo ero fino in fondo, anzi erano soliti chiamarmi el talianeya (l’italiana). E mentre nella terra dei miei genitori difficilmente riuscivano a vedermi come una tunisina ad hoc, lo stesso avveniva nell’altra sponda del mediterraneo, nel paese dove sono nata. Questo avveniva soprattutto quando dovevo relazionarmi a sconosciuti.

La prassi era sempre la stessa:

  • Io: “piacere, mi chiamo Manel e sono nata a Bolzano.”
  • X: “Manel? Ma che nome è?
  • Io: è arabo, i miei genitori sono tunisini, ma sono nata in Italia”
  • X: “Aaaah, ma quindi non sei italiana!”

Immaginatevi che crisi d’identità. Così forte che si fece sentire in tutta la sua potenza nel mio ultimo anno delle superiori, che ovviamente persi. Stavo davvero male, oltre a non sapere chi fossi pensavo di non essere nemmeno in grado di riuscire nella vita e forse avrei continuato a pensarla in quel modo se non fosse stato per un carissimo professore di scienze sociali, il professor Roberto Cotteri, pace all’anima sua, che pur essendo in pensione da qualche anno, dopo aver sentito della mia bocciatura, riuscì a trovare il numero di casa e chiamarmi.

Mi disse poche parole, semplici e profonde, ma che hanno rivoluzionato la mia vita a aiutato nel mio rito di passaggio: “Signorina Ben Ameur, sono venuto a conoscenza della sua situazione scolastica: mi dispiace molto. Mi prometta però che non si arrenderà mai, perché lei ha le capacità e io credo in lei. Si fidi di me e faccia felice un anziano signore in pensione.” Dopo qualche anno il Professore passò a miglior vita e io non ho mai avuto modo di ringraziarlo.

Iniziai quindi a pensare che la domanda fosse più che lecita, ma che gli strumenti adottati per sopraggiungere ad una risposta gratificante e lo scopo che mi ero prefissata di raggiungere fossero limitati se non addirittura sbagliati. Insomma, perché dovevo scegliere di essere o l’una o l’altra, o bianco o nero, d’altronde ho sempre amato la diversità di colori, e come dalla complementarietà dei colori primi, giallo e blu, si genera un altro colore, il verde speranza, dall’unione delle due identità culturali che da sempre hanno influenzato la mia vita, poteva generarsi una nuova identità, originale, contemporanea e liquida. In effetti dovevo soltanto rivolgere lo sguardo verso la mia esperienza di vita per comprendere che questa era l’unica strada da percorrere per trovare il mio spazio nel mondo, la mia identità. Insomma avrei dovuto cambiare le lenti attraverso le quali guardavo la realtà, così da poter convertire quelli che in un primo momento sembravano dei limiti in pregi. Questo è stato il primo grado di consapevolezza.

Ovviamente questo è stato il primo grado imprescindibile di consapevolezza, ma non sufficiente. Sapevo che avrei dovuto studiare molto per avvallare questa tesi e trovarne le basi concettuali, inoltre avrei dovuto anche rivalutare l’intera mia esistenza. Percorso lunghissimo e che continua tutt’oggi, che mi ha portato ad avere una laurea in filosofia e a frequentare adesso un corso di laurea magistrale in Cooperazione internazionale, tutela dei diritti umani e dei beni etnoculturali.

Oggi ringrazio il cielo per essere nata nel capoluogo altoatesino, a Bolzano dove fin dalla nascita ho potuto sperimentare il multiculturalismo. Come ben sapreste in Alto Adige ci sono più gruppi linguistici riconosciuti istituzionalmente, quello italiano, quello tedesco e quello ladino. Tra questi poi c’erano le altre minoranze che per caso o necessità mi trovavo a frequentare (marocchina, egiziana, bengalese, indiana, macedone, albanese, rumena). Ho frequentato le scuole italiane (avrei potuto scegliere di iscrivermi a quelle tedesche), a pallavolo le mie compagne erano in prevalenza di madrelingua tedesca mentre a karate era un bel melting pot. Ho passato tutti i miei 18 anni dalla seconda metà di settembre alla prima di giugno in Italia e dalla seconda settimana di giugno alla seconda settimana di settembre in Tunisia, includendoci ovviamente le vacanze di Natale. Praticamente un terzo di ogni anno lo passavo in Tunisia. Ho festeggiato il Natale anche io con tanto di albero di natale e regali, ma invece che scartarli il 25 di dicembre me lo facevano fare il 31. Ho scoperto che non erano una festività islamica finché non scoprì pure io, contemporaneamente ai miei coetanei, che Babbo Natale non esisteva. Sembra una banalità, ma per me non lo è stato e per questo ringrazio i miei genitori per avermi lasciato assaporare come tutti gli altri la magia del Natale. Oggi ho scoperto che questo tipo di azione, o meglio di adattamento, viene definito dall’antropologia culturale come sincretismo, una parola che mi ha aperto le porte dell’infinito.

Mi ricordo inoltre che papà passava molto del suo tempo a spiegarci perché noi, se avessimo voluto essere dei buoni musulmani, avremmo dovuto essere gentili e rispettosi con la comunità che ci ospita, perché è un nostro dovere religioso “il bravo musulmano lo si riconosce dalle sue buone azioni”, mi ripeteva, “anche soltanto un semplice sorriso ad una persona sconosciuta sarà un’opera di bene che avrai fatto nel corso della tua vita” diceva.

Anche la mia educazione posso dire che è stata da sempre supportata dalla mia famiglia, specialmente da mio padre il quale premeva sul fatto che soltanto attraverso l’istruzione sarei potuta essere una donna libera ed indipendente. Quella libertà a lui tanto cara, che si acquisisce con la nascita, secondo i precetti islamici, e che puoi mantenere soltanto attraverso la continua ricerca della conoscenza; “la sapienza è luce divina”, mi ripeteva, parafrasando inconsciamente Platone. Sono inoltre cosciente che a tale scopo non sarei mai sopraggiunta se non mi fossi trovata in uno Stato sociale che si è assunto il compito di garantire la mia istruzione, rendendola gratuita ed obbligatoria. Una fortuna che né i miei genitori, né i miei cugini hanno potuto avere, soprattutto sotto dittatura.

Penso che lui sia stato fondamentale per la mia formazione e per i miei successivi studi, perché ogni qual volta che la realtà mi poneva davanti agli occhi delle forme di ingiustizia, mio padre mi diceva che soltanto attraverso gli studi e l’educazione avrei potuto contribuire a combattere il proliferarsi di queste nel mondo, sempre ovviamente integrandoli ai precetti islamici, quali ad esempio il concetto di umma (comunità). Essere educati al concetto di umma significa essere educati alla coesistenza solidale di una comunità, almeno per quel che mi riguarda. Grazie alla natura mediana di mio padre e alla realtà effettiva che mi trovavo a vivere quotidianamente in Italia, ho compreso che entrambe le identità culturali avevano delle regole e dei fini ai quali tendevano, e che non erano così diversi fra loro nella sostanza; entrambe perseguivano la felicità umana. La differenza stava nel linguaggio utilizzato dalle parti, ostacolo non semplice da valicare, ma il contenuto ero pressoché simile. Capì quindi che le varie “degenerazioni” delle culture, non erano riconducibili ai loro precetti ideali, ma piuttosto alla messa in pratica di questi da parte degli appartenenti di una comunità, che alle volte, per ignoranza o per difetto, adottavano un’interpretazione estremistica e anacronistica. Questo riuscivo a riscontrarlo direttamente sia in Tunisia che in Italia. Pensai quindi che se si fosse riuscito ad identificare un denominatore comune in tutti gli esseri umani in quanto tali, saremo forse riusciti a trovare un linguaggio comune che sarebbe andato al di là delle differenze culturali, e che avrebbe eventualmente evitato tante di quelle incomprensioni che da lì a poco sarebbero sfociate in odio e azioni criminali.  Ovviamente crescere musulmani in Occidente durante gli anni duemila, specialmente dopo il 2001, ti porta necessariamente a riflettere sulla tua identità e sulla tua stessa religiosità, cercando inevitabilmente di sincretizzarle con quelle della comunità “ospitante”. Alcune volte ci si riesce ed altre no; io penso di esserci riuscita perché mi hanno aiutato a farlo, generando in me quel sentimento di filantropia che mi ha portato prima a iscrivermi a Filosofia e poi ad un corso di laurea magistrale in cooperazione internazionale e tutela dei diritti umani.

Già da piccola ero sensibile all’idea di bene e di male nel mondo ed è per questo che ho frequentato il liceo delle scienze sociali, ove ho potuto avere un primo approccio con materie quali appunto scienze sociali, psicologia, antropologia, pedagogia, diritto ed economia, oltre che filosofia. Quando presi il diploma pensai che forse iscrivermi alla facoltà di Filosofia mi avrebbe aiutato a comprendere meglio tutto ciò che poteva essere il mondo e quindi gli uomini e dunque io. Alla fine avevo già potuto sentire parlare, durante le lezioni alle superiori, della concezione aristotelica della natura umana, e dei principi ideali quali ad esempio la Giustizia in sé in Platone, per non parlare delle famose categorie di Kant attraverso le quali, si diceva, comprendevamo il mondo. Ebbi a che fare anche con i concetti di civiltà e di umanità, con il loro significato e il mutamento di questo nel tempo partendo da Seneca per arrivare a Montesquieu e Rousseau. Tutti questi concetti erano parole chiave utili alla ricerca della mia identità. Iscriversi a Filosofia significava per me allenare la mente a pensare in maniera diversa, più profonda, fino ad arrivare al limite del paradosso e trovarci senso; insomma si poteva spaziare dalla filosofia metafisica e teoretica a quella analitica o politica da più prospettive, che avrebbero infine determinato la mia. Ovviamente questa doveva essere ben allenata. Ed è per questo che mi iscrissi.

Entrare nel mondo della Filosofia è stato bellissimo, nonché adrenalinico.

È come aver scelto di salire su una montagna russa del pensiero, alle volte infatti ci si trova ribaltati rispetto all’idea di partenza, senza accorgersene, quasi da farti sentire perdere l’equilibrio ed essere sopraffatto dalle vertigini. Questo sentimento era ovviamente generato dalla mente critica, strumento indispensabile e imprescindibile per il ragionamento filosofico, che scuote tutte le tue convinzioni come fosse un terremoto, analizzandole da tutte le prospettive possibili.

È sicuramente uno dei principi capisaldi della filosofia pensare che soltanto attraverso il ragionamento critico si può raggiungere il pensiero libero.

Ho frequentato il corso di filosofia antica e ho potuto dialogare, parafrasando Machiavelli, con gli autori antichi quali Pitagora, Eraclito, Protagora, Socrate, Platone e Aristotele, e comprendere le loro idee di “natura umana” di Giustizia e di Democrazia. Ideali che rappresentano le fondamenta del pensiero occidentale, pensiero di cui faccio parte. Inoltre ho seguito il corso di filosofia medievale, dove compresi che in base alle necessità del tempo, vi fu una concettualizzazione del sentimento religioso che pose le basi della politicizzazione della fede. Scoprì inoltre, che pur essendo ricordato il periodo buio della storia d’Europa, non mancò di pensatori eccelsi che riformarono lo stesso nostro modo di vivere odierno. Inoltre fu un periodo di incontri di civiltà, nel senso che se non fosse stato per due pensatori musulmani del tempo, Averroè ed Avicenna, forse oggi non saremmo in grado di risalire ai grandi antichi pensatori greci se non fosse stato per le loro opere di traduzione. Grazie a questo corso ho potuto scoprire che ci sono stati pensatori musulmani eccelsi, ma che io non conoscevo. Il medioevo è stato l’epoca in cui è vissuto Pietro Abelardo, logico, filosofo morale, teologo audace che con la sua opera Dialogo tra un filosofo, un giudeo e un cristiano, presentò forse per primo l’idea di una tolleranza naturale, forse persino una convergenza con le altre fedi (ebraismo ed islam); tema tutt’altro che irrilevante oggi.

Pensare che due dei miei pensatori preferiti sono Dante Alighieri, il quale ho scoperto essersi ispirato al libro della scala – libro escatologico musulmano che descrive l’ascesa di Maometto in Cielo – per creare la sua maestosa opera la Divina Commedia, e Niccolò Cusano teologo ed umanista.

Studiare il Rinascimento italiano, e avere la fortuna e il privilegio di poter viverlo nell’arte lasciataci in eredità all’interno di questo grande sito archeologico che è l’Italia, mi emoziona sempre. È un’emozione forte paragonabile all’innamoramento che mi porta a credere a coloro i quali affermarono che la bellezza a salvare il mondo.

Molti dei miei ideali di oggi trovano la loro giustificazione nei precetti illuministi, come ad esempio il primato della Ragione, i presupposti del cosmopolitismo di Kant e gli ideali di Liberté, Égalité, Fraternité dei motti rivoluzionari.

Dell’illuminismo però non condivido l’efferata critica contro le tre Religioni. Non sarebbero potute essere declassate così facilmente da un giorno all’altro, d’altronde avranno avuto anche loro aspetti positivi. Insomma, io in mio papà vedevo gli effetti positivi della religione, come su molti altri. Preferisco adottare una visione più antropologica, conferendo alle religioni forza attiva nella determinazione dei processi sociali.

Se non avessi mai studiato Hegel, non avrei mai capito l’idea di Stato e di Nazione, e quindi nemmeno di nazionalità, quella che andavo ricercando. E se non mi fossi trovata a studiare i giusnaturalisti quali Locke e Hobbes forse non avrei mai capito perché gli uomini sentono la necessità il bisogno di unificarsi in delle società e di darsi delle regole.

Insomma lo studio della Filosofia, mi ha liberato dalla catena del pregiudizio e mi ha reso una persona libera.

È riuscita a farmi comprendere che l’intero mondo esteriore è una nostra rappresentazione, nel senso che il nostro modo di intendere la realtà è influenzato dall’educazione, istruzione e dal contesto sociale in cui siamo vissuti. Ho scoperto inoltre che l’antropologia afferma che non esiste cultura migliore dell’altra ed è per questo che oggi sentiamo parlare di relativismo culturale e dell’inneggio al multiculturalismo. Ancor di più ho scoperto che preservare e tutelare le altre identità culturali, garantendoli l’autodeterminazione, può migliorare anche la propria di identità e questo viene chiamato effetto specchio.

Grazie alla filosofia e all’antropologia ho potuto ritrovare l’unità fra le mie diverse identità culturali, senza danneggiare l’una a discapito dell’altra.

Grazie a questi nobili strumenti ho potuta abbandonare quella condizione di heimatlos per poter oggi dire ad alta voce che: non sono o tunisina o italiana ma sono italo-tunisina, tunisina ed italiana; ancor più posso affermare di essere occidentale, europea, italiana, maghrebina, araba, africana, laica e musulmana senza sembrare incoerente.

Ed è questo il bello del multiculturalismo: genera creatività attraverso le identità fluide, rende condivisibili principi morali attraverso i sincretismi, e fa andare oltre le identità culturali per comprendere ciò che è giusto da ciò che sbagliato, utilizzando come metro di valutazione l’umanità.

Questo mondo così globalizzato, che ci rende tutti quanti così vicini, ha bisogno del multiculturalismo tanto quanto un corpo vivente necessità di anticorpi.

 

 

Commenta per primo

Lascia un commento

L'indirizzo email non sarà pubblicato.


*