Quando una Nera va in Africa per Volontariato -2°

di Shata Diallo.

Dedico questo articolo a Josephine, Francesca, Maria Vittoria, Annapaola, Errico, Claudia, Lia, Gabriella, Giulia, Franco e Peppe.

La forza, questa volta, è arrivata dai loro occhi: volontari dai 18 agli 80 anni. Occhi che ho visto entrare in contatto con il profondo della propria essenza, della propria esistenza. Occhi in contatto con le emozioni, quelle vere, senza filtri. L’ultima sera, di ritorno nei nostri alloggi, abbiamo cantato tutti insieme l’inno italiano. In generale odio cantare l’inno italiano, lo trovo di un patriottismo così stupido, forse perché a volte non amo sentirmi italiana. Ed invece quella sera mi sono sentita parte di un cuore pulsante e fiera di essere italiana. Un’italiana volontaria in una Onlus che fa davvero il suo dovere, non per vanità, ma per mettere a disposizione strumenti utili alla popolazione di Zanzibar.

Ho passato due settimane a scrivere e cancellare, a cercare di concettualizzare nero su bianco il senso di questa esperienza, forse perché, questa volta, sono scesa più giù, nella profondità della mia intimità.

Il primo viaggio di volontariato in Africa non si scorda mai, rimane nel cuore, così, profondo, da non essere abbastanza. Troppe le domande, troppo il cuore rimasto la, ed è così che l’11 Marzo mi sono ritrovata su un aereo dell’Ethiopian Airlines, destinazione Zanzibar, Tanzania.

Tutto uguale, ma tutto diverso. Quante cose cambiano in sei mesi.

Non cambia mai, però, la domanda che mesi fa mi sono fatta: cosa accade quando una nera va in Africa a fare volontariato?

Si. Perché non finisce tutto con la definizione di chi sei tu, quello, forse, è solo il primo gradino. Il passo vero, quello grande, sta nel capire qual è il confine tra chi sei tu e chi è la persona che hai di fronte, qual è la realtà con la quale ti confronti. Abbandonata la mia spocchia occidentale, la mia presunzione di conoscere e di sapere, ho assottigliato quel confine che mi permette di entrare in contatto con un mondo diverso dal mio, così diverso dal mio. Un’altra faccia della medaglia, quella africana. Sono partita con i miei sogni, con il cuore aperto, con meno vestiti e capelli più ricci che mai.

Ricordo il giorno in cui sono entrata nell’asilo di Kibuteni ed ho messo piede nella prima aula della scuola.

Con lo sguardo cerco la testina di Hossein, il bambino che a settembre mi rubò il cuore. Non lo vedo, i battiti aumentano e corro verso la seconda aula, entro, mi guardo intorno, non c’è. Sono sicura che a settembre la sua aula era la prima, magari non avevo controllato bene. Sento il cuore che sprofonda, entro nella terza aula, quella dei grandi. Hossein è al primo banco, è cresciuto, ormai sembra un ometto. Mi riconosce e mi stringe forte, o forse io stringo forte lui, lo stringo forte a me, e non esiste più niente al mondo. Tutto ha un senso ed il mio cuore si colora di arcobaleno. Lui sorride, mi prende le mani e mi mostra il suo quaderno. Scrive proprio bene. Lo osservo, controllo la sua capoccetta e non ha più quel grande fungo bianco in testa, è guarito. Hossein è cresciuto come sono cresciuta io, quante cose vorrei raccontargli, come l’ho pensato tutti i giorni, tutte le mattine. Vorrei dirgli quanto il primo viaggio mi abbia lasciato un segno indelebile, come tutte le volte in cui ero triste o felice avrei voluto abbracciarlo. Ma lui ha solo cinque anni e non capisce una parola ne di italiano ne di inglese. Sento una rabbia dentro, non potevo comunicargli tutto questo. Smetto di pensare e presa dalle mie domande noto che mi osserva, abbracciato e stretto a me. Hossein mi ha capita, eppure mi ha vista un giorno sei mesi fa. Hossein si è ricordato di me ed io di lui, lui, un bambino tra mille bambini. Una testa tra mille teste ed un cuore tra mille cuori. Vorrei portarlo con me e fargli conoscere tutte le bellezze del mondo. Avevo ricominciato a pesare. Tutte le bellezze del mondo, alla fine, sono racchiuse in momenti come quello.

Hossein sarà un uomo, un giorno, e chissà che uomo sarà. Forse un uomo lo è già, chissà quante responsabilità, chissà quanto i suoi piccoli occhi taglienti hanno già visto, hanno già imparato della vita. Fisso quegli occhi così neri e così belli e mi chiedo cosa lui possa pensare di me.

Il messaggio che mandiamo a chi, al contrario di noi, non può scoprire il mondo.

Una fitta al cuore, un male lacerante. Il dolore di non poter dimostrare chi sono. Le mani legate: il limite della lingua e l’ignoranza sulla loro comunicazione culturale non mi permettevano in alcun modo di entrare in contatto con lui. Quell’emozione mi ha rapita, perché quella stessa identica emozione, è l’emozione di un popolo spesso bloccato nei confronti della comunità occidentale.

Quel giorno ho dovuto salutare Hossein, nella speranza di poterlo abbracciare di nuovo, quando sarò cresciuta ancora di più, e quando sarà cresciuto anche lui. Quella vocina squillante, quell’abbraccio, mi ha regalato uno dei viaggi più grandi che io abbia mai fatto: un viaggio che supera lo spazio ed il tempo, supera il muro del suono. Mentre mi allontanavo sentivo quelle vocine squillanti che ti rimangono dentro e ti spaccano in due, sentivo il peso del dolore, il peso dell’amore, il peso della vita.

Qualche giorno dopo, parlando su Skype mio padre mi ha urlatoQuanto sei bella Bebè. Viva l’Africa!”. Non era un urlo controllato, proveniva da dentro. L’ho guardato tramite uno schermo, dall’altra parte del mondo, ed ho pensato ad Hossein.

Cosa ci fa, quindi, una nera, in Africa, a fare volontariato? Respira la vita, pura, limpida. Respira l’amore profondo ed il dolore buio. Una nera, in Africa, abbraccia Hossein, che in realtà assomiglia così tanto a suo papà. Lo abbraccia, lo stringe a sé, sente la vita scorrere nelle sue vene, trasmettendo a quel bellissimo bambino, con gli occhi, la stessa forza che il suo papà ha avuto nel rialzarsi, innumerevoli volte, contro ogni pregiudizio, contro ogni dolore, contro ogni differenza culturale, contro ogni nostalgia di casa. Quando una nera va in Africa a fare volontariato tocca, con mano, lo stesso amore per quella Terra che ha sempre sentito raccontare, e che forse non ha mai voluto capire ed accettare, e vede attraverso i suoi occhi un mondo nuovo.

E ancora una volta sono io, con il mio bagaglio di amore e dolore ad abbracciare me stessa, ad abbracciare mio padre, ad abbracciare la mia vita: e così tutto splende di una luce nuova, la mia luce, la luce della libertà.

 

 

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